Potere e (in)Giustizia

di Dick Marty

 

Santi e rivoluzionari sembrano essere d’accordo sul senso e la funzione della giustizia. Sant’Agostino: “se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?”.

Le parole sono diverse, ma il senso è sempre quello e chi le dice non era solito frequentare i santi, Che Guevara: “siate capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella di un buon rivoluzionario”.

E Martin Luther King aggiunge “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia per la giustizia ovunque”. Politici di destra e di sinistra non mancano d’invocare e di celebrare questi nobili principi. Quasi sempre solo a parole, tuttavia.

 

La politica diffida della giustizia soprattutto quando questa assume ed esercita pienamente il suo statuto e la sua funzione di potere giudicante indipendente. L’equilibrio tra i poteri dello Stato, teorizzato da Montesquieu, è la premessa essenziale per evitare l’assolutismo e preservare le libertà del cittadino. Questo check-and-balance, per riprendere un’azzeccata espressione anglosassone, è invero una premessa essenziale di ogni vera democrazia. Pretendere che il popolo possa decidere tutto, senza riguardo ai principi dello stato di diritto, è pertanto falso, anche se tale appare essere il messaggio essenziale del maggior partito svizzero (come peraltro lo fu quello dei nazionalsocialisti che diedero vita al Terzo Reich).

 

I magistrati dell’ordine giudiziario sono di regola eletti dal legislativo. Da noi, ciò avviene secondo una rigorosa chiave di ripartizione partitica. Il candidato, pur competente, non ha praticamente alcuna probabilità di essere eletto se non si riconosce in un partito. L’eletto versa poi un contributo alla formazione che lo ha proposto. Il sistema può funzionare se i politici danno prova di alto senso di responsabilità e si sforzano veramente di scegliere i migliori candidati capaci di esercitare il loro mandato in piena indipendenza. Il principio che la magistratura rispecchi le diverse sensibilità della società è certamente giusto, a condizione di attuarlo senza una mentalità clientelare e privilegiando sempre la qualità del candidato. Temo che ciò avvenga ora più raramente.

 

D’altra parte, i politici sembrano avere sempre meno remore a esercitare pressioni e minacce all’indirizzo dei magistrati che decidono in modo a loro non gradito. Quando le autorità comunali di Emmen rifiutarono la cittadinanza a un gruppo di candidati con la sola motivazione che il loro cognome terminava in -ic, il Tribunale federale concluse che tale decisione era manifestamente arbitraria e dunque illegale. Decisione comunale assurda e grottesca, sentenza ovvia. Eppure, l’allora presidente dell’UDC – oggi Consigliere federale – non esitò a minacciare pubblicamente di non rieleggere i giudici che avevano deciso in tal senso. Uno scandalo che fu purtroppo accolto nella quasi totale indifferenza. Nel nostro paese, infatti, i magistrati dell’ordine giudiziario sono sottoposti periodicamente a rielezione, ciò che costituisce un evidente mezzo di pressione. Solo il Canton Friburgo prevede l’elezione per un periodo indeterminato, con la possibilità di revoca del giudice nei casi di comprovata incapacità o gravi mancanze nell’esercizio del suo mandato, ciò che peraltro corrisponde agli standard stabiliti dal Consiglio d’Europa per garantire l’indipendenza della magistratura.

 

Un altro caso illustra chiaramente la volontà politica di controllare le decisioni dei magistrati. Quando l’Assemblea federale fu chiamata a eleggere l’Autorità indipendente di sorveglianza del Ministero pubblico della Confederazione, l’UDC non esitò a proporre quale membro il responsabile dei mercati esteri della banca Wegelin. Scandalizzato da tale proposta – invitare la volpe nel pollaio! – opposi la candidatura del professor Pascal Mahon, noto e rispettato specialista del diritto costituzionale svizzero. Eppure, la maggioranza del Parlamento scelse la volpe. Poco dopo, la Wegelin andò a gambe all’aria per le note e poco pulite vicende fiscali!

 

 

La giustizia è un potere dello Stato ma perde qualsiasi credibilità quando si confonde con gli altri poteri istituzionali o diventa succube di quelli economici o ideologici. Una magistratura indipendente e capace di opporsi agli altri poteri, quando necessario, è una delle garanzie più importanti per la tutela dei diritti e delle libertà del cittadino. Proprio perché il nostro paese non conosce una vera giurisdizione costituzionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo costituisce un tassello essenziale per la protezione del cittadino. L’iniziativa dell’UDC sui cosiddetti giudici stranieri, le reazioni alla sentenza concernente il caso di Emmen e la scelta di un banchiere di una banca controversa a scapito di un costituzionalista per la sorveglianza del Ministero pubblico sono invero fatti emblematici di una dinamica inquietante, peraltro in atto anche in diversi altri paesi europei.

 

Si restringono le competenze del potere giudiziario a favore dell’esecutivo ed in particolare delle forze di polizia. Si tratta di un chiaro sintomo di uno svilimento della funzione di controllo e di contropotere del giudiziario a favore di uno Stato più autoritario e poco incline ad accettare la contraddizione. Temo che siamo in presenza di una deriva verso quel “fascismo eterno” che, come diceva Umberto Eco “può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti”.

 

 

L’orrore suscitato dai crimini di guerra e l’impunità di cui godevano gli autori di tali atti hanno prepotentemente messo in evidenza l’incapacità di affrontare simili eventi con le sole istituzioni nazionali e la conseguente necessità d’istituire una giustizia internazionale. I primi grandi processi internazionali furono quelli di Norimberga e Tokio. L’evento è ancora oggi celebrato come un vero e decisivo progresso della lotta contro l’impunità. Ma fu vera giustizia? Il tribunale di Norimberga fu istituito in circostanze assai particolari e tale decisione non fu necessariamente animata da nobili sentimenti di giustizia. Churchill non voleva saperne di un processo: meglio procedere all’esecuzione immediata dei gerarchi nazisti, sosteneva. Stalin voleva il processo soprattutto per motivi di propaganda interna, il suo paese essendo quello che aveva pagato il più alto tributo nella guerra contro il Terzo Reich. L’unico che fece valere motivi di natura morale fu Roosevelt.

 

Passo in avanti contro l’impunità, certo, Norimberga e Tokio furono, tuttavia, anche e soprattutto l’espressione di una giustizia dei vincitori. Non vera giustizia, dunque. Si trattava di tribunali militari composti da soli magistrati dei paesi vincitori e i crimini di guerra compiuti dagli eserciti vittoriosi furono deliberatamente ignorati. Nessuna inchiesta, ad esempio, fu ordinata sull’orribile massacro di Katyn, dove l’Armata Rossa trucidò circa 22’000 prigionieri polacchi e ignorati furono pure i devastanti bombardamenti dei centri delle grandi città tedesche da parte degli Alleati nelle ultime fasi della guerra. Allora fu intenzionalmente colpita la popolazione civile quando l’esito della guerra era ormai deciso.

 

Insospettabile il giudizio di Benedetto Croce, nel suo intervento alla Costituente nel 1947: “Un Tribunale costituito dai vincitori e non basato su norme preesistenti può solo definirsi strumento di vendetta e non di giustizia”. Lo stesso Kennedy avrebbe affermato che “Un processo tenuto dai vincitori a carico dei vinti non può essere imparziale perché in esso prevale il bisogno di vendetta. E dove c’è vendetta non c’è giustizia”. A seguito di tragici eventi che suscitarono una profonda emozione nell’opinione pubblica, le Nazioni Unite istituirono tribunali ad hoc per il Ruanda, Libano, Sierra Leone, Cambogia e Ex-Jugoslavia. Non si trattava più di tribunali militari ma molte riserve espresse nei confronti di Norimberga sussistono. Ad esempio, come pretendere che i Serbi possano ritenere credibile un tribunale che è stato imposto da quegli stessi Stati che hanno bombardato il loro paese in flagrante violazione del diritto internazionale? L’azione bellica, infatti, ebbe luogo senza il necessario consenso del Consiglio di sicurezza e colpì pure obiettivi civili, circostanza sulla quale il tribunale non volle indagare. Queste corti sono particolarmente lente e assai selettive nella scelta degli imputati. Le condanne vengono quasi sempre pronunciate decine di anni dopo i fatti. In funzione da una dozzina di anni, il tribunale internazionale per la Cambogia ha pronunciato due condanne e i suoi costi di funzionamento si avvicinano ora ai 250 milioni di dollari. Difficile, in tali circostanze, parlare di giustizia.

 

 

Con il Trattato di Roma del 1998 vengono finalmente gettate le basi per una giustizia internazionale permanente e indipendente, incaricata di perseguire e punire i crimini più gravi (genocidio, crimine contro l’umanità, crimine di guerra e aggressione). Viene pertanto a cadere l’obiezione di parzialità, peraltro spesso fondata, nei confronti di giurisdizioni speciali imposte dopo i fatti dai vincitori e dai più forti. La nuova Corte penale internazionale (CPI) con sede all’Aia ha così segnato una nuova e fondamentale tappa nell’attuazione di un’autentica giustizia internazionale e nella lotta contro l’impunità. In teoria, perlomeno. Le speranze furono, infatti, ben presto deluse. Premessa indispensabile per l’efficacia e la credibilità di una giurisdizione penale internazionale è il suo carattere universale. Detto in altre parole, tutti gli Stati devono rispettare le regole del gioco e aderire al Trattato istituente la Corte penale internazionale.

 

E qui casca l’asino! Proprio gli Stati che sono da sempre maggiormente implicati in conflitti armati e in atti potenzialmente qualificabili di crimini di guerra hanno rifiutato di aderire al sistema della CPI: Stati Uniti, Russia, Cina, Israele e altri ancora. Tre Stati sui cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza con diritto di veto non aderiscono pertanto alla CPI. Grazie a competenze riconosciute al Consiglio di sicurezza nel funzionamento della CPI, queste potenze, pur non facendone parte, esercitano comunque un notevole influsso sull’istituzione giudiziaria. In funzione da una quindicina di anni, il bilancio della CPI è purtroppo assai deludente. La Corte si è occupata quasi esclusivamente di vicende africane, ciò che ha indotto l’Africa del Sud ad abbandonare per protesta la CPI. Invero, scandalosi non sono i casi che sono stati trattati dalla CPI, bensì quelli che sono ignorati.

 

La guerra in Iraq, decisa in violazione del diritto internazionale e sulla base di menzogne grossolane, ha causato oltre duecentomila morti, devastato un paese, annientato le istituzioni e disintegrato una società. L’intervento militare scellerato ha inoltre direttamente contribuito alla formazione del famigerato Stato islamico con tutte le atrocità che ciò ha provocato. Se si applicassero i principi più elementari della giustizia, i vari Bush, Blair, Cheney e Rumsfeld dovrebbero comparire dinanzi alla CPI come imputati di crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

 

Putin dovrebbe essere indagato per la guerra cruenta condotta in Cecenia (usata cinicamente per consolidare il suo potere), Duterte per i numerosi assassini compiuti contro suoi stessi concittadini e così pure il governo israeliano per le condizioni inumane imposte agli abitanti di Gaza, nonché per le brutalità e gli assassini di giovani disarmati compiuti dall’esercito. Che dire poi del silenzio che avvolge la sporca guerra condotta dall’Arabia Saudita in Yemen? Diamine, bisogna pur aver riguardo per un cliente tanto importante per l’industria dell’armamento, chi pensa altrimenti ai posti di lavoro (ma soprattutto agli azionisti)? Meglio sparlare di Cuba!

 

L’ingiustizia continua a influire, spesso in modo determinante, sui rapporti sociali e le relazioni internazionali. L’istituzione giudiziaria è così ancora ben lungi da quello statuto di indipendenza e di vigilanza che le compete in una vera democrazia. Pur con qualche encomiabile eccezione, rimane largamente uno strumento di controllo e di dominio al servizio dei più forti. “Poiché non si poteva trovare la giustizia, si è inventato il potere” (Blaise Pascal).

 

 

 

 

 

 

Quaderno 18 / Novembre 2018