Dopo la pandemia

di Francesco Bonsaver

 

La devastante pandemia non ha solo generato nella collettività dolori immani per l’alto tributo di morti a cui è stata pesantemente confrontata. La sua gestione politica ha pure avuto anche importanti ripercussioni sul tessuto sociale del Paese e nell’economia nazionale e globale. 

I Quaderni hanno chiesto a tre economisti esperti e acuti osservatori delle dinamiche sociali, di esprimere il loro parere sulla conduzione della gestione della pandemia e le conseguenze future che deriveranno dalle scelte fatte, sia a livello nazionale che internazionale. Vi è un filo rosso comune nelle risposte dei tre esperti. Le risposte politiche sono state fortemente condizionate dalla visione ideologica liberista, da decenni imperante. Un’impostazione rilevatasi fallimentare alla prova dei fatti delle conseguenze provocate dalla crisi pandemica, ma dalla quale non sarà facile liberarsene in tempi brevi, malgrado le condizioni oggettive lo imporrebbero urgentemente.

Christian Marazzi

Economista, ha insegnato in diverse università europee e alla State University di New York. Attualmente insegna alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana.

 

“Nessuno sarà lasciato indietro” aveva proclamata il Consiglio federale allo scoppio della prima ondata della pandemia nella primavera dello scorso anno. È andata così?

In Svizzera le misure prese, seppur tempestive nel primo lockdown, rispetto ai paesi che ci circondano, sono state estremamente timide per paura di un aumento del debito pubblico. Ciò è dovuto ha una visione liberista che stenta ad esser abbandonata, malgrado sia oggi superata dalla questione emergenziale. Le misure sono state unicamente indirizzate al sostegno dell’offerta tramite crediti agevolati e il lavoro ridotto, mentre è stata completamente dimenticata la domanda. Quest’ultima è uscita fortemente ridotta, basti pensare all’75% dei salari del lavoro ridotto. Non sono state sostenute nemmeno le attività dei soggetti penalizzati dal lockdown o dal rallentamento economico. L’incitazione all’indebitamento delle imprese e il congelamento dei licenziamenti con il lavoro ridotto, hanno contenuto temporaneamente il disastro sociale. Ma presto i nodi verranno al pettine. La crisi pandemica sta letteralmente massacrando una serie di realtà sociali, accelerando l’implosione sociale in corso. Al contempo ha fatto emergere l’importanza strutturale nella nostra società di alcuni soggetti. Ad esempio, è merito della crisi pandemica che si è preso coscienza dell’esistenza degli indipendenti e della loro importanza nella struttura sociale. Gli indipendenti incarnano una tendenza in atto da tempo nei cambiamenti nelle forme di lavoro che scontano un ritardo delle coperture dello Stato sociale. L’indennità perdita di guadagno, implementata in tempi brevissimi perché in precedenza gli indipendenti ne erano esclusi, rimane una soluzione comunque parziale. Nel calcolo, essa non tiene conto delle spese dell’indipendente che, per definizione, gestisce un’attività con delle spese che gli consentono poi di generare un reddito.

 

Ha fatto riferimento allo Stato sociale svizzero. Reggerà l’impatto o dovrà essere ripensato?

Lo Stato sociale è arrivato già fragile di fronte alla crisi pandemica. Da trent’anni lo Stato sociale è confrontato a misure di risparmio e da una costante opera di delegittimazione della sua funzione di ridistributore di ricchezza in ultima istanza. In secondo luogo, il presupposto su cui si è stato costruito lo Stato sociale, l’impiego a tempo indeterminato, non è più valido a fronte degli importanti cambiamenti avvenuti nelle forme di lavoro, dove forme precarie hanno acquisito sempre maggiore importanza. Dei due problemi principali a cui è confrontata l’Avs, oltre al problema demografico tra attivi e non, riguardano gli stipendi rimasti bassi negli ultimi due decenni e l’aumento dei periodi di assenza contributiva dati dal lavoro saltuario e mal retribuito. Il rischio oggi è quello della corporativizzazione dello Stato sociale, dove dei gruppi rivendichino (anche legittimamente) delle tutele sociali corporative, entrando però in conflitto tra di loro per riuscire a ottenerle per la propria categoria a discapito delle altre. Indipendenti e microimprese ne sono un esempio. Per gli indipendenti si è trovata una soluzione, seppur criticabile, con l’Ipg, mentre per i titolari e familiari di microimprese no. È la dimostrazione che le misure corporativiste non siano delle soluzioni, perché frantumano ulteriormente la coesione sociale. Occorre invece pensare a delle misure universali, per tutta la popolazione. Ormai la realtà del lavoro autonomo, indipendente è una realtà definita strutturalmente. Anche i salariati sono dentro questa tendenza, con l’estremizzazione della flessibilità oraria su chiamata. L’esempio è l’occupazione a metà tempo con la lavoratrice che deve essere disponibile a tempo pieno, perché potrebbe essere chiamata in qualsiasi momento sul lavoro. Tutti devono sostenere delle spese della vita, ma queste non vengono riconosciute. Lo stato sociale deve diventare garante di questa messa al lavoro della vita. Bisogna implementare un bio-Stato sociale, ossia che garantisca un reddito per risarcire la messa al lavoro della vita stessa. Uno Stato sociale che va dunque ripensato sulla realtà odierna e futura delle forme di lavoro esistenti e non quelle del passato, che tenga conto della vita come bene comune. E come la vita, non può essere che universale.

 

Finanza e lavoro. Come sarà il rapporto post covid tra queste due realtà?

Ai massimi livelli di istituzioni planetarie come Fmi, Bce e Ue, vi è oggi un consenso unanime della necessità di un cambiamento d’impostazione. La politica monetaria che da sola ha retto le sorti dell’economia mondiale fin dalla crisi dei subrime del 2008, farcita da politiche d’austerità, ha aumentato in modo impressionante le diseguaglianze sociali, facendo lievitare i debiti pubblici e privati in maniera improduttiva, generando solo rendita ma non la crescita. Tra il 1980 e 2019 i volumi dei debiti pubblici e privati sono triplicati, mentre nel medesimo periodo c’è stata una diminuzione degli investimenti. Oggi la situazione sta diventando pericolosa, esplosiva. C’è una linea retta tra le misure d’austerità condite da politiche monetarie e l’invasione dello sciame sciamano nel Congresso degli Stati Uniti. È successo quel che è stato strutturalmente preparato con le politiche liberiste scellerate. Oggi siamo a un bivio. Ne sono consapevoli gli stessi vertici delle istituzioni economiche mondiali. Per loro in gioco vi è il capitalismo. O si cambia puntando sullo stato sociale attivo e innovativo e si sviluppano delle politiche fiscali che possano imprimere una crescita che permetta di contenere gli effetti dell’aumento sul lungo periodo dei debiti pubblici, o si continuerà sull’onda di politiche monetarie ultraespansive che stanno gonfiando in modo assolutamente irrazionale le borse mentre cresce esponenzialmente il numero delle persone in grave sofferenza. Fintanto che i tassi d’interesse saranno pari a zero e le banche centrali continueranno a iniettare mensilmente quantità incredibili di moneta nel circuito finanziario, andremo verso quella che è stata definita “la bolla epica”. La svolta d’impostazione è dunque inevitabile. Quali indirizzi concreti prenderà, dipenderà tutto dalla battaglia politica sui temi specifici.

Sergio Rossi

Professore ordinario di macroeconomia e di economia monetaria nell’Università di Friburgo

 

A inizio novembre, lei avanzò la richiesta di un lockdown unitamente ad una sessantina di professori di economia attivi in diverse università svizzere. Il governo non vi ascoltò, dando retta invece alle posizioni delle associazioni padronali come l’Usam ed EconomieSuisse. Come giudica, a posteriori, questa scelta dal punto di vista economico?

Evidentemente si tratta di una pessima scelta, alla luce delle crescenti difficoltà in cui si trovano numerosi portatori di interesse nel sistema economico, siano essi lavoratori dipendenti, indipendenti o titolari di impresa. Da questo punto di vista, sarebbe stato meglio chiudere tutte le attività economiche non indispensabili durante gli ultimi due mesi dell’anno scorso, per ridurre notevolmente il numero di persone contagiate dal Covid-19, distribuendo degli aiuti a fondo perso alle imprese per pagare gli stipendi della forza-lavoro e i costi fissi come gli affitti e il leasing dei veicoli. La decisione di non imporre un secondo lockdown all’inizio di novembre si è dimostrata catastrofica dal punto di vista sanitario e lo sarà presto anche dal punto di vista economico, tanto per l’economia privata quanto per il settore pubblico, perché esso registrerà in fin dei conti dei disavanzi maggiori di quelli che avrebbe dovuto finanziare se il Consiglio federale avesse deciso di imporre un secondo confinamento totale a inizio novembre. In assenza di un tale confinamento, la Confederazione e i Cantoni si ritroveranno con dei disavanzi di bilancio maggiori, perché il numero di fallimenti aziendali sarà superiore a quelli che sarebbero stati registrati se lo Stato avesse deciso un secondo lockdown versando degli aiuti a fondo perso alle imprese coinvolte da questa chiusura totale delle loro attività. La grande cacofonia e le contraddizioni delle scelte pubbliche sul piano federale e su quello cantonale durante la seconda metà del 2020 hanno aggravato notevolmente la situazione sanitaria come pure quella economica, a causa dell’ideologia neoliberista che ignora la società per considerare solo la responsabilità individuale, quando fa comodo a chi detta le scelte politiche ed economiche in Svizzera. Anche se il Covid-19 non fa certo alcuna distinzione di età, genere o statuto sociale, resta il fatto che sono soprattutto i più deboli, fisicamente ed economicamente, a pagare il prezzo più alto di questa grave pandemia.

 

Il dibattito sul debito pubblico della Confederazione è destinato a inasprirsi nei prossimi tempi, in concomitanza con la valutazione dei fondi del lavoro ridotto e dei costi sanitari. Sul fondo, il tema sarà la giustizia sociale e le disuguaglianze socioeconomiche. Come si dovrebbe affrontare la questione? La pandemia ha accresciuto le diseguaglianze sociali nel Paese. Quali ricette economiche dovrebbero essere messe in atto per cercare di risolverle?

Appare chiaro sin d’ora che il dibattito sul debito pubblico della Confederazione sarà acceso e provocherà diversi scontri sul piano politico, con un probabile risultato che penalizzerà i ceti meno abbienti della popolazione, i cui interessi sono meno difesi in seno al Parlamento di quanto lo siano quelli dei più influenti gruppi di pressione, tra i quali si trovano le grandi imprese e le istituzioni finanziarie. In realtà, si dovrebbero aumentare al 100 per cento le indennità per lavoro ridotto versate alle persone il cui stipendio lordo mensile è inferiore a 5000 franchi, almeno per l’intero 2021. I crediti Covid-19 concessi dalle banche con la fideiussione della Confederazione dovrebbero essere trasformati in aiuti a fondo perso per le imprese che rispettano determinati criteri sociali e ambientali, vale a dire che versano degli stipendi che permettono di condurre una vita dignitosa, con dei contratti a tempo indeterminato e che non danneggiano l’ambiente. Si dovrebbe anche prelevare una imposta federale “Covid-19” sugli utili che le imprese in Svizzera hanno realizzato a seguito della pandemia, per esempio quelle che producono mascherine, respiratori o liquidi disinfettanti, come pure una imposta simile sui patrimoni che non generano alcun indotto economico ma girano in maniera autoreferenziale nei mercati finanziari. Anche le banche dovrebbero essere partecipi su questo piano, visto che beneficiano della fideiussione della Confederazione nella misura in cui essa riduce notevolmente il volume dei crediti inesigibili e aumenta pure i ricavi da interessi percepiti dal settore bancario. Le aliquote di imposta sull’utile pagate dalle banche dovrebbero perciò essere aumentate almeno per il biennio 2020-21, anche se un numero elevato di crediti bancari garantiti dalla Confederazione permetterà alle banche di incassare degli interessi per i prossimi 5 anni.

 

I dati statistici (fallimenti, disoccupazione, previsioni PIL) presentano un quadro meno drammatico di quel che invece ci si può immaginare per le conseguenze economiche e sociali della pandemia. Dall’altro lato, le organizzazioni di aiuto diretto alle persone in difficoltà segnalano un notevole aumento delle richieste. Come si spiega questa discrepanza?

Le statistiche riguardano il passato e perciò offrono una immagine superata dagli eventi. Inoltre, le statistiche sulla disoccupazione non considerano tutta la disoccupazione ma ne colgono solo una parte, lasciando perciò trasparire una immagine meno drammatica della realtà. Anche le previsioni economiche che riguardano il PIL sono poco o nulla affidabili, perché il futuro è imprevedibile e inconoscibile, come giustamente osservava John Maynard Keynes. Basterebbe tuttavia considerare il notevole aumento del numero di persone che si rivolgono alle organizzazioni di aiuto in questo periodo per capire la gravità del problema e per intuire che le scelte politiche attuali non saranno in grado di affrontare e risolvere questo problema correttamente. Senza un radicale cambio di rotta sul piano politico federale e cantonale, la società e l’economia svizzere peggioreranno a vista d’occhio durante il 2021, un anno cruciale per l’insieme dei portatori di interesse e che verosimilmente sarà peggiore di quello precedente, perché né la maggioranza dei politici al governo né quella dei dirigenti aziendali sta dimostrando quella responsabilità cui questi attori richiamano la popolazione confrontata alla prima pandemia dell’epoca della globalizzazione. È vero che il Covid-19 permetterà di risanare le casse dell’AVS a seguito dell’elevato numero di morti che erano al beneficio della pensione, ma questo la dice lunga sul “darwinismo sociale” che oggi detta le scelte politiche al governo e sullo svuotamento della democrazia in ciò che si continua a definire una “economia sociale di mercato” ma che di “sociale” non ha più nulla tranne l’etichetta.

Alfonsuo Tuor

Giornalista presso il gruppo Corriere del Ticino e specialista in temi economici, insegna Economia aziendale alla Supsi

 

Se e quando dovessimo uscire dalla pandemia, a livello geopolitico ci si dovrà attendere dei cambiamenti sostanziali negli equilibri mondiali?

I cambiamenti degli equilibri geopolitici stanno già avvenendo. L’amministrazione Obama e poi quella capitanata da Donald Trump hanno dichiarato la Cina avversario strategico degli Stati Uniti. Questa scelta non verrà assolutamente modificata da Joe Biden. A mio parere, il nuovo Presidente americano cambierà unicamente il modo del confronto con Pechino. Donald Trump ha puntato su sanzioni, dazi, divieti alle esportazioni, mentre Biden cercherà di puntare sulla costruzione di un fronte dei Paesi occidentali con l’obiettivo di isolare la Cina, in pratica punterà su una politica di contenimento analoga a quella seguita da Washington negli anni della guerra fredda per contrastare l’Unione Sovietica. Decisiva sarà l’Europa. Credo che sia improbabile che l’Unione europea segua pedissequamente Washington per molti motivi. I principali sono: i Paesi europei hanno forti e ampi rapporti commerciali con l’Impero di mezzo, quindi per loro la Cina è solo un pericoloso concorrente economico e commerciale, non un nemico; in secondo luogo le crescenti tensioni tra Europa e Stati Uniti hanno fatto riemergere in Europa la volontà di riconquistare una piena sovranità e di non continuare ad essere un vassallo americano. Quindi il confronto tra le due potenze offre al Vecchio Continente l’opportunità di attuare una politica tesa ad essere un protagonista della scena internazionale, acquisendo una politica economica ed estera autonoma. Anche questa strategia non sarà facile, poiché il “partito filoamericano” in Europa è forte: può contare su interessi economici e finanziari e soprattutto sulle dirigenze degli apparati militari e dei servizi segreti.

 

Tutto ciò non deve far trascurare il fattore decisivo: la crisi del mondo occidentale che si manifesta sia a livello politico sia a livello economico. Il confronto con la Cina è dunque destinato a essere giocato tra un Paese sempre più orgoglioso dei suoi successi economici, tecnologici e sociali ed un Occidente in crisi e sempre più sfiduciato nei confronti anche delle proprie istituzioni democratiche che rappresentano sempre più solo i grandi interessi economici e finanziari e dimenticano le sofferenze di gran parte della popolazione condannata ad una sempre maggiore insicurezza riguardo al posto di lavoro e a una contrazione dei propri redditi reali. E sempre questi confronti, come è capitato con l’Unione Sovietica, non vengono decisi da uno scontro militare, ma dall’implosione economica e politica di uno dei contendenti. Anche i recenti fatti di Washington indicano che gli Stati Uniti stanno vivendo una crisi esistenziale.

 

Quando scoppiò la crisi finanziaria del 2008, sembrava giunta la fine dell’ideologia neoliberista, del meno Stato. Così non fu, tutto è continuato come prima. Con la fine della pandemia si riproporrà il medesimo schema? Le disuguaglianze sociali ed economiche saranno destinate a continuare a crescere?

Il liberismo è già morto, ma non è facile superarlo. E’ già morto, poiché non garantisce la crescita, fa esplodere le diseguaglianze e crea tensioni sociali talmente forti da mettere in dubbio la stessa sopravvivenza dei sistemi democratici. Quindi anche l’establishment sta prendendone le distanze. Il problema è però che il liberismo può essere superato solo da politiche fortemente protezionistiche oppure da un accordo internazionale, ossia da una nuova Bretton Woods. Nelle condizioni attuali quest’ultima via mi sembra impercorribile, mentre la prima è destinata ad essere ostacolata dalla proiezione internazionale dei grandi gruppi industriali. Sono sempre più convinto che il primo passo da compiere per uscire dalla trappola liberista non può essere che il controllo del movimento dei capitali, come si è fatto per decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale. In questo modo si darebbe un colpo significativo al ruolo destabilizzatore della finanza speculativa e si creerebbero le premesse per contrastare l’evasione fiscale di contribuenti ricchi e di società. Dobbiamo infatti ricordare che ciò ha favorito e sta favorendo la trasformazione dei nostri sistemi democratici in sistemi plutocratici.

 

Il Recovery fund europeo (750 miliardi) viene presentato come un’opportunità per una svolta del sistema economico europeo. Porterà davvero dei cambiamenti?

Il Recovery Plan europeo è un passo importante nella lunga e tortuosa strada dell’integrazione europea, ma non è assolutamente sufficiente per far uscire l’Europa dalla crisi provocata dalla pandemia. Il passo è significativo poiché per la prima volta tutti i Paesi dell’Unione a sottoscrivere un prestito a favore dei Paesi europei in maggiore difficoltà. Insomma si supera il timore soprattutto tedesco di trasformare l’Unione europea in una Transfer Union, cioè in un meccanismo di trasferimento di fondi dai Paesi virtuosi a quelli scialacquoni. Ci si deve però interrogare se questo passo resterà isolato oppure ne seguiranno altri. Questa svolta tedesca, a mio parere, è dovuta alla gravità dell’attuale crisi, che ha obbligato l’UE ad una risposta unitaria senza la quale la stessa Unione europea non sarebbe riuscita a sopravvivere e al timore della Germania di perdere il velo europeo che le consente di avere un ruolo a livello internazionale. Dal punto di vista economico, credo che una vera ripresa non è vicina. Covid permettendo, vi potrebbe essere un rimbalzo iniziale anche forte che però si esaurirà in breve tempo. Non si vedono infatti propositi di riforma dei meccanismi di funzionamento delle nostre economie. Si sta solo pensando a un programma di rilancio congiunturale con una pitturata di verde. Bisogna infatti ricordare che il liberismo è ancora l’ideologia al potere in Europa. Occorreranno molti movimenti, come i Gilets jaunes francesi, perché l’Europa cambi.

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