di Franco Cavalli (tratto dal Quaderno 2)
Il settore delle multinazionali farmaceutiche è quello che mostra meglio di ogni altro non solo l’iniquità, ma addirittura il delirio a cui arriva l’attuale sistema capitalistico, basato sulla cosiddetta share-holder value, cioè sul massimizzare i guadagni borsistici a breve scadenza. Per avere le quotazioni borsistiche le più alte possibili, bisogna cioè massimizzare i profitti. Per fare ciò, o si risparmia sulla manodopera, soprattutto con le mega-fusioni o si vendono i farmaci a dei prezzi astronomici.
Di solito i monopoli farmaceutici fanno entrambe le cose e con un certo successo, se ci si pone dal loro punto di vista. Basta guardare i rendiconti finanziari per esempio della Novartis e della Roche che hanno dei bilanci di poco superiori ai 40 miliardi l’anno a testa, con dei guadagni sempre nell’ordine dei 10 miliardi. Sì, avete letto bene: il tasso di profitto è del 25%, ciò che nessun’altra industria raggiunge. Si spiega così come mai, anche durante le crisi borsistiche più nere, i valori delle azioni farmaceutiche rimangano sempre stabili o addirittura crescano.
Ma come è possibile?
L’attuale esplosione dei costi dei farmaci è stata resa possibile, come tante altre perversioni, dalla controrivoluzione neo-liberale. Il tutto parte, come avviene molto spesso per simili tendenze negative, dagli Stati Uniti. Siccome i monopoli farmaceutici sono stati gli sponsor principali dei candidati repubblicani alla presidenza, questi, una volta eletti, hanno abolito tutte le leggi, in base alle quali il governo statunitense poteva mettere un limite al prezzo dei medicamenti. Negli Stati Uniti le industrie farmaceutiche sono quindi libere di fissare il prezzo che vogliono. Nella sua prima campagna elettorale, proponendo i suoi ambiziosi piani di riforma sanitaria, Obama aveva anche promesso di reintrodurre la possibilità di fissare un limite al costo dei farmaci: una delle tante promesse che poi ha disatteso. Ma probabilmente, anche qui, non aveva le mani molto libere: basti pensare che, in base a cifre ufficiali, Roche e Novartis hanno investito negli ultimi cinque anni 100 milioni di dollari per attività di lobbying nel Parlamento americano.
Ma per capire l’effetto che ciò provoca a livello globale, mi servo dell’esempio dei farmaci anti-tumorali. In questo settore il mercato statunitense rappresenta il 60% delle vendite: se
aggiungiamo l’Europea occidentale ed il Giappone arriviamo al 95%, cosicché il resto del mondo (nel quale ci sono il 70% di casi di cancro) ha i mezzi per consumare solo meno del 5% dei farmaci
anti-tumorali. L’importanza decisiva del mercato statunitense fa sì che poi le ditte farmaceutiche, una volta fissato un certo prezzo al di là dell’Atlantico, obbligano tutti gli altri paesi del
mondo ad accettare come prezzo di riferimento quello statunitense, pena il rifiuto di vendere il farmaco al paese X o Y. Difatti i paesi X o Y rappresentano spesso (come la Svizzera) lo 0.5% del
mercato o poco più: i mega monopoli farmaceutici possono quindi fare il bello o il brutto, perché tengono il coltello dalla parte del manico.
Le pseudo-giustificazioni
Molto spesso la propaganda dei monopoli farmaceutici cerca di giustificare l’esplosione dei prezzi riferendosi agli investimenti che sono obbligati a fare nella ricerca. Questa giustificazione è solo una mezza verità, e quindi anche una mezza bugia. Per quanto si riesce a capire (la trasparenza non è mai il forte di questi monopoli) nelle spese di ricerca fanno rientrare di tutto, comprese le prebende e i favori distribuiti a destra e a manca, per invogliare a comperare i propri prodotti o a far sì che le ricerche producano i risultati voluti. Potrei citare molti esempi che dimostrano la fallacità di questa giustificazione. Ne racconto solo uno. Tutti ci ricordiamo la tragedia del talidomide, il farmaco che venendo consumato da donne incinte, portò alla nascita centinaia di bambini focomelici, cioè con vari difetti agli arti superiori o inferiori. Dopo questo scandalo, nessuno voleva più toccare il talidomide, che si otteneva gratuitamente. Una quindicina di anni fa si scoprì per caso che poteva essere utile nel trattamento di un certo tipo di tumore (mieloma multiplo), che insorge praticamente solo in persone non più in età di pro- creazione. Per diversi anni abbiamo potuto averlo quasi gratuitamente. Poi, grazie a diversi raggiri commerciali, è stata ricreata una situazione di monopolio, per cui il farmaco ora costa, a seconda dei paesi, tra i 2’000 e i 3’000 franchi al mese. E tutto ciò senza che per la ricerca sia stato speso un solo franco!
Per chi lavora nel settore è evidente che il prezzo dei farmaci ha ben poco a che fare con i costi di produzione, e solo parzialmente con quelli di ricerca, ma viene fissato quasi ed esclusivamente sulla base di quel prezzo che si pensa di poter obbligare il mercato a pagare. Così negli ultimi 25 anni il costo dei farmaci anti-tumorali è aumentato di 40-50 volte e siamo ora arrivati a dei costi, per gli ultimi farmaci, di 150-160’000 franchi per paziente per un anno. È evidente che neanche i sistemi sanitari dei paesi più ricchi saranno in grado di sopportare a lungo questi costi. Addirittura giornali come il Financial Times sono perciò arrivati a parlare di un comportamento dell’industria farmaceutica che assomiglia a chi sta segando il ramo su cui sta seduto. Secondo il premio Nobel per l’economia Stieglitz il sistema, se continua su questa strada, non potrà che implodere. Egli ha quindi proposto dei modelli alternativi, che si basano sull’abolizione dei brevetti (che stanno alla base del sistema dei guadagni borsistici) e che dovrebbero essere sostituiti dalla possibilità di compensare le scoperte delle industrie farmaceutiche, mentre contemporaneamente dovrebbe aumentare di molto il ruolo dello stato (che è stato praticamente eliminato dalle politiche neoliberali) nel gestire e finanziare anche buona parte degli studi presso i pazienti, in base ai quali deve poi dimostrare l’efficacia o meno del nuovo farmaco e quindi la sua immissione nel mercato. A questo punto vale forse la pena di ricordare che l’aderenza molto stretta al principio dei brevetti è stata dettata alcuni anni fa dai cosiddetti accordi di Doha, dove furono soprattutto gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Svizzera a esigere che queste regole fossero draconiane.
Che cosa fare?
Naturalmente a essere vittima di questo sistema sono soprattutto i paesi poveri, nei quali spesso la spesa sanitaria di aggira sui 50 franchi all’anno per persona. È quindi da lì che è venuta la rivolta contro questo sistema: pensiamo al processo fatto dal Sud Africa a Roche per i farmaci contro l’AIDS o al recente processo, vinto dallo stato indiano, contro Novartis, per un farmaco anti-tumorale. In quei paesi difatti centinaia di migliaia, se non milioni di pazienti ogni anno muoiono o vengono perlomeno trattati male, perché non hanno accesso ai farmaci migliori. C’è quindi da sperare che questa rivolta cresca e possa imporsi globalmente, in modo da arrivare un giorno all’abolizione di queste regole disumane che sono alla base del mercato farmaceutico. Da parte nostra sarebbe forse anche il momento di ritornare a discutere della nazionalizzazione dei nostri monopoli farmaceutici.