di Franco Cavalli
È nata nel Keral e vive a New Dheli: il suo romanzo d’esordio, Il Dio delle piccole cose, è stato un caso letterario e un best seller in tutto il mondo. Già in quel libro la scrittrice lasciava trasparire una chiara visione di classe, nel senso che la maggior parte dei personaggi erano o sfruttatori o sfruttati.
Da allora le sue posizioni politiche sono andate progressivamente radicalizzandosi.
La ricordo alcuni anni fa al Festival di Locarno, quando durante una discussione pubblica dedicata al tema dei diritti umani si sbilanciò, anche se con un tipico candore orientale, in una serie di affermazioni che i media mainstream definirebbero indubbiamente come estremiste.
Personalmente invece considero che è semplicemente una delle poche intellettuali ancora in grado di dire pane al pane e vino al vino.
«Il capitalismo sta distruggendo il pianeta»: è questa una delle tante affermazioni chiare, taluni direbbero perentorie, che si ritrovano in questo agile libretto, il cui il titolo italiano è però meno radicale di quello inglese (Capitalim: a ghost story), che lascia meglio intendere come Arundhati Roy sia convinta che l’attuale struttura socio-economica del mondo sia diretta da una serie di macchinazioni di forze e di personaggi, che molto spesso rimangono nell’ombra.
Il libro raccoglie diversi articoli scritti negli ultimi anni dalla scrittrice indiana a proposito di tutta una serie di crimini, spesso di massacri, perpetrati dallo stato indiano e non solo nel Kashmir. Ci sono alcuni episodi assolutamente raccapriccianti, a proposito dei quali la Roy denuncia sia il silenzio colpevole (perché spesso comperato) dei media che la sottomissione della giustizia ai voleri del potere politico. L’inizio del libro è fulminante, con la descrizione di Antilla, un’enorme villa costruita nel centro di Mumbai da Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India. Vale la pena di citarne almeno una parte: «Avevo letto di quella dimora, la più costosa mai costruita: 27 piani, tre piattaforme per elicotteri, 9 ascensori, giardini pensili, sale da ballo, stanze dove si può cambiare clima a piacimento, palestre, parcheggio a 6 livelli, 600 addetti alla manutenzione. Nulla di tutto ciò mi aveva preparato al vertiginoso prato verticale: una muraglia d’erba, fissata a un enorme griglia di metallo, che corre lungo i 27 piani».
E questo in un paese dove la maggior parte della popolazione vive nella più totale povertà e dove le caste inferiori vengono spesso trattate ancora come schiavi.
Il libro, senza essere noioso o saccente, è molto ben documentato con referenze bibliografiche e giornalistiche. Dopo averlo letto, non ci si può non porre la domanda: ma come mai qui da noi si parla sempre dell’India come della «democrazia più grande del mondo», senza mai mettere in dubbio il rispetto dei diritti umani, cosa che invece avviene continuamente e insistentemente rimproverata ai cinesi? La risposta dell’autrice è chiara: perché l’establishment indiano è legato indissolubilmente alla Banca Mondiale, al grande capitale anglosassone, alle pseudo-ONG finanziate dai grandi managers. Da quelli cioè che rappresentano l’1% che domina il mondo.
Fa quindi bene a chiudere la pubblicazione con il breve discorso tenuto a Zuccotti Park davanti al movimento Occupy Wall Street. L’intervento finiva con 4 richieste minime, citiamole:
1) I figli dei ricchi non possono ereditare il patrimonio dei genitori;
2) Tutti hanno diritto a una casa, all’istruzione e alle cure mediche;
3) Le risorse naturali e i servizi primari (acqua, elettricità, assistenza sanitaria e scuole) non possono essere privatizzati;
4) Stop alle proprietà incrociate. Di queste ultime fa diversi esempi, eccone due: «Chi fabbrica armi non può possedere media, le imprese non possono sovvenzionare istituti universitari eccetera».
Alcune di queste rivendicazioni potrebbero essere utili anche da noi.
Quaderno 5 / dicembre 2015