Polizia, dopo le violenze il muro del silenzio

il nostro inviato Ivan Miozzari

 

I fatti. Il 25 settembre, al Palapenz, la Polizia impedisce ad alcuni cittadini di prendere la parola in dissenso alla politica svizzera riguardo ai migranti. Li trascina via con forza. Beltraminelli e Gobbi se ne stanno a guardare. Come fosse legittimo. I media vengono fatti allontanare perché non documentino quello che accade in sala. Anch’essi portati via di forza.

Per il capo del DI, apparentemente, anche questo è lecito e democratico. O forse la democrazia non è tra le sue priorità.

 

Nell’atrio seguono dei fatti di violenza. Gli agenti usano le maniere forti. Individualmente alcuni manifestanti portati fuori sono aggrediti fisicamente in modo assai duro. Alcuni malintenzionati passano a vie di fatto gratuite. Purtroppo indossano la divisa blu e dunque le vittime - tra cui io stesso, presente come inviato di ForumAlternativo - non hanno alcuna possibilità di difendersi.

 

 

Le conseguenze. Più volte le notizie al riguardo, in salse e ricostruzioni diverse, hanno fatto il giro dei media. La Polizia però non si sente. Il Governo non si sente. Per loro, forse, non è successo nulla. Non è dato sapere. Il Municipio di Coldrerio non si esprime sul gesto violento, avvenuto in pubblico e passato anche in televisione, del capo Dicastero Sicurezza pubblica. Alcuni politici accusano il collettivo di cittadini R-esistiamo di essere antidemocratici. Una strana lezione di democrazia data da chi nega la parola a chi la prende. In Gran Consiglio si arriverà a discuterne grazie ad alcune interpellanze.

 

Per la garanzia dei diritti civili e per l’integrità delle persone risponde lo Stato. Ma oggi, in Ticino, l’Esecutivo non sembra più in grado di esserne garante. Il Parlamento, dal canto suo, ha grandi fragilità nel comprendere e sostenere i diritti e le necessità del popolo. Non resta che chiedere l’intervento del Ministero pubblico.

 

 

Un tentativo. Quando la Polizia non accetta il dialogo, arrivare a una soluzione sembra impossibile. Ed è incomprensibile che questa Istituzione ostacoli i diritti fondamentali dei cittadini. Il mio personale tentativo di contatto è stato infruttuoso. Forse può essere utile la condivisione di questa esperienza.

 

Affrontare una crisi non è un processo facile. Perciò qualunque approccio che ne semplifichi la risoluzione dovrebbe essere preso in considerazione. Che si tratti di un percorso individuale o della gestione da parte istituzionale di un problema, è sempre una questione di volontà. Mettersi di buona volontà. E fare delle scelte. Accettando le conseguenze che ne dovessero derivare. La buona volontà dovrebbe aprire un canale di comunicazione tra tutte le parti coinvolte nella crisi, almeno tra quelle che ne vogliono uscire il più dignitosamente possibile. Non si sa se la Polizia abbia questa attitudine. Non si sa se, al contrario, si prenda tempo per costruirsi una barricata. Totalmente sulla difensiva.

 

Dopo i fatti violenti e antidemocratici avvenuti al Palapenz sotto gli occhi, forse chiusi, di una parte del Consiglio di Stato presente, l’approccio dialogante nei confronti del Comando della Polizia cantonale non ha portato alcun risultato.

 

Fosse anche prematuro, dopo quattordici giorni dai fatti, qualche tipo di reazione pubblica e privata da parte della Polizia era dovuta. Che ci sia una strategia del silenzio, della negazione forse? Sarebbe bastato un breve comunicato ai media. Assertivo o puramente di circostanza, avrebbe quanto meno confermato una qualche presa a carico della vicenda. Non vola una mosca.

 

D’altronde anche a livello privato non va affatto meglio. A partire dai primi contatti con le Gendarmerie, che siano di persona o per telefono, non si riesce a stabilire una comunicazione. Di volta in volta, l’agente, allo sportello o al telefono, va informato che in merito alla violenza usata da un loro collega c’è la disponibilità a trovare una via conciliativa invece di ricorrere alla denuncia. Vuole sentire tutto quello che si ha da dire. Solo dopo afferma seccamente di non essere informato. Che bisogna rivolgersi ad altri.

 

Di persona in persona, ogni agente nega la possibilità di parlare con un responsabile di alto grado. L’unica informazione è sempre un altro indirizzo a cui rivolgersi. Infine si viene messi in contatto con un commissario capo. Fortunatamente sostiene di essere l’indirizzo giusto a cui rivolgersi. Dalla conversazione si ottengono tre considerazioni e un’informazione. È inutile telefonare a destra e a manca alla Polizia. Non bisognava sbandierare sui giornale i fatti violenti. Nel dialogo, dietro a toni pacati e una forma più che corretta, si sarebbe avvertito, nella voce, dell’astio nei confronti della Polizia. Sono le pacate affermazioni del commissario.


 

Non è chiaro cosa sappia della condizione di chi ha subito delle violenze. Dove le emozioni assumono la forma del paradosso. Quando indignazione e sgomento si sovrappongono e assumono un peso significativo e destabilizzante per il fisico e per la mente. Non è chiaro se abbia inteso la buona volontà di collaborare.

 

Diverso è l’approccio del Ministero pubblico. Dopo una chiara informazione iniziale, la reazione arriva a stretto giro di posta. Per quanto si tratti solo di una data per essere ascoltati, è comunque rassicurante sapere che lo Stato c’è. Almeno in una delle sue espressioni. Il Governo è occupato a tenere le mani sugli occhi. L’informazione che si ottiene dal commissario? Un altro indirizzo.