di Loris Campetti
Sono passati cinquant’anni, mezzo secolo. Era il ’68, che in Italia durò per tutti gli anni Settanta, più che in qualsiasi altro paese del mondo. Fu un risveglio improvviso, travolgente, a tratti violento e a tratti ironico e autoironico.
Iniziarono gli studenti a rovesciare le cattedre e i tavoli di casa, occuparono piazze e chiese contestando autoritarismo e luoghi comuni, lasciando stupito l’ordine costituito e la buoncostume. Proseguirono gli operai bloccando officine e città, volevano se non tutto quasi, conquistarono potere riequilibrando il rapporto capitale-lavoro. E poi, anzi durante, fu la volta delle donne, con l’intreccio tra conflitto di classe e conflitto di genere ancora contro l’autoritarismo, a scuola certo, in fabbrica certo, in chiesa certo, ma anche in famiglia, anche tra compagni.
In un decennio che produsse l’unità dal basso degli operai, incarnata dall’esperienza consiliare gramsciana e luxemburghiana della Flm, lo Statuto dei lavoratori, la riforma delle pensioni e quella sanitaria, i diritti al divorzio e all’aborto, la chiusura dei manicomi, crebbe anche la sinistra, il Pci e le forze più radicali.
Forse l’ultimo giorno del lungo biennio rosso ’68-’69 arrivò in un mattino d’autunno del 1980 quando Enrico Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori bloccati per 35 giorni dagli operai disse che il suo partito, il Pci, stava con loro, e sarebbe rimasto con loro anche in caso di occupazione della fabbrica metalmeccanica più grande d’Europa. L’indomani iniziò l’isolamento della classe operaia e dello stesso Berlinguer dentro il Pci. I lavoratori, fu il coro unanime dopo la sconfitta alla Fiat, hanno preso troppo e ora devono restituire. Stanno ancora restituendo oggi, nel 2018, con interessi da strozzo.
Mezzo secolo dal ’68 e dall’autunno caldo, sembra mezzo millennio. Il movimento operaio che rappresentava la ragione sociale – la ragion d’essere - della sinistra, oggi ritiene la sinistra il nemico principale. Renzi peggio di Berlusconi, dicono, perché ha realizzato le controriforme che all’ex cavaliere di Arcore non erano riuscite grazie a una qualche opposizione sociale, sindacale e politica: jobs act, articolo 18 cancellato insieme alla dignità di chi lavora e oggi può essere licenziato senza giusta causa, la mazzata della Fornero al diritto alla pensione, il pareggio di bilancio in Costituzione.
Se parli con gli operai del nord Italia capisci le loro solitudini e il loro rancore, nonché tutte le ragioni del crollo delle sinistre nelle urne. Se parli con gli abitanti delle periferie metropolitane e del Mezzogiorno capisci il senso di abbandono e la voglia di vendetta politica contro chi resiste solo nei centri storici della borghesia, ai Parioli a Roma come nella collina torinese o nelle vie del lusso milanese. I quartieri, le città, le regioni scelgono le forze populiste.
L’Italia è diventata giallo-verde perché tutti i segnali di fumo, tanti, lanciati negli ultimi anni dai cittadini alle forze democratiche sono stati colpevolmente ignorati. Perché? Perché il Pd ha cambiato natura, alleanze, valori, sposando il neoliberismo, abbandonando quelli che una volta si chiamavano produttori per far spazio ai consumatori. Il movimento dei 5 Stelle ha fatto il pieno al sud promettendo falsamente di sconfiggere povertà e precarietà, la Lega ha sbancato il Nord con la caccia allo straniero, causa di tutti i mali. Che affoghi in mare, “la pacchia è finita” grida un Salvini senza più freni inibitori.
Dopo un paio di decenni in cui tutti – tutti - spiegavano la fine della lotta di classe perché “siamo tutti sulla stessa barca”, si sta scatenando una lotta di classe orizzontale, i penultimi contro gli ultimi, i bianchi contro i “negri”, chi ha ancora un contratto a tempo indeterminato contro il precario, o l’immigrato arruolato dal caporale, o il ragazzo somministrato (parola che evoca una medicina e invece vuol dire dato in affitto da un’agenzia a un padrone). Tutti sanno ormai che vuol dire dumping sociale. È la guerra tra poveri.
Ma scaricare solo sul razzista Salvini l’epidemia xenofoba che avvelena l’Italia è un imbroglio: è stato il ministro Pd Minniti, e non il suo successore agli interni Salvini, a far suo lo sciagurato slogan nazionalista “aiutiamoli a casa loro”, o a far accordi con le tribù libiche fornendo soldi e navi in cambio dell’apertura di lager dove imprigionare, torturare, stuprare, uccidere i migranti nel deserto pur di impedir loro di sbarcare sulle nostre coste. E l’Europa ad applaudire.
Il populismo imperante è la conseguenza dell’abbandono del popolo da parte del Pd. Non è colpa di Salvini e Di Maio se le diseguaglianze sono aumentate a dismisura ma di chi li ha preceduti. Semmai, colpa di Salvini e Di Maio è di continuare ad aumentarle con scelte di politica economica criminali che fanno più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. Con l’aggravante che nelle scelte caritatevoli nei confronti dei poveri, Lega e M5S escludono i poveri che non siano italiani doc e così un terzo dei 5,5 milioni che vivono sotto la soglia di povertà possono crepare, a terra quelli che non sono già crepati in mare. E i figli degli immigrati, anche se nati in Italia, sono discriminati nelle scuole, esclusi dalla mensa e in alcune realtà come Monfalcone, costretti a cercare il posto in un banco scolastico in un altro paese perché nel paese devo si fabbricano le navi di lusso costruite dai loro padri bengalesi assoldati dai caporali italiani i “negri” sono ormai troppi e rischiano di riempire scuole e ospedali con i loro marmocchi.
La sinistra ha scelto di imitare liberisti e razzisti (naturalmente in modo soft e di nascosto) per non lasciare il campo alle destre. Non si può lasciare il fascismo ai fascisti. Questa è l’Italia in mano ai populisti per grazia ricevuta. Questo è il Pd.
Fuori da questo torvo scenario qualcosa resta. Ma la sinistra politica è debole, frastornata, divisa in mille rivoli. Leu sembra essersi sciolta come neve al sole e deve anch’essa fare i conti con il fatto che è percepita dalle fasce sociali a cui si rivolge come parte del sistema: anche Leu ha tenuto solo nei quartieri alti. Potere al popolo – che idea brillante chiamarsi così – rischia di spaccarsi tra filo-Gue e filo-Varoufakis. A sinistra del Pd sta crescendo un’onda anomala pericolosa dal colore rosso-bruno, si riscopre la patria come fa Fassina e si strumentalizza il Marx dell’esercito del lavoro di riserva come fa Giulietto Chiesa per dire che chi vuole far entrare i migranti lo fa solo per sfruttarli e abbassare diritti e costo del lavoro. Dunque frontiere chiuse. Ma c’è anche chi tenta di raccogliere le bandiere buttate dalle destre, fino a difendere la Nato e il neoliberismo della Trojka pur di attaccare il governo giallo-verde.
In vista di una nuova tornata elettorale amministrativa e, soprattutto, delle europee del prossimo anno, il fronte di sinistra si presenta, dunque, debole e diviso. Qualche timido segnale positivo arriva dalle città, dalla Napoli ben governata da un De Magistris tentato dall’idea di buttarsi in politica alla guida di una coalizione alternativa al Pd, ma anche dalla Milano dei movimenti sociali che con i partigiani di ieri e di oggi dell’Anpi riempie le piazze contro il razzismo.
Un appuntamento che potrebbe rivelarsi determinante per il futuro della democrazia italiana è rappresentato dal congresso della Cgil, l’organizzazione di massa più importante con oltre 5 milioni di iscritti. Finalmente la confederazione comincia a rendersi conto che senza una svolta radicale, senza aprirsi alle mille forme che il lavoro ha assunto, senza aprire le porte delle Camere del lavoro all’esterno, ai giovani, ai precari, ai migranti, a chi paga i costi più alti della crisi, rischierebbe di fare, con tempi e dinamiche certo diverse, la stessa fine del Pd. Rischierebbe cioè l’insignificanza. La possibile – e al momento in cui scriviamo la probabile – elezione a fine gennaio a segretario generale di Maurizio Landini è una buona notizia, e sembra andare nella direzione giusta. Ma le buone notizie, prima di essere festeggiate, devono essere confermate dai fatti.
Quaderno 18 / Novembre 2018