di Collettivo Scintilla
Il Sahara Occidentale è uno dei territori più minati al mondo: la ripresa delle negoziazioni fra Marocco e Fronte Polisario saprà rimediare?
Il muro venne costruito a partire dagli anni 80 per volontà del Regno del Marocco: l’idea veniva da lontano, l’argomento è invece di attualità e non solo nel Sahara Occidentale. 2’700 km, come da Oslo a Palermo, sabbia e cemento armato: dividere un popolo, impedirne la libertà di movimento e al contempo annichilirlo sull’arco degli anni.
Era l’ennesima linea tracciata su una cartina ed eretta a confine fisico, una copia poco più triste di quanto fatto dalle potenze europee al momento della cosiddetta decolonizzazione. Erano gli anni del conflitto armato fra il Regno del Marocco e il Fronte Polisario, il governo, tuttora in esilio, del Sahara Occidentale, quel pezzo di terra fra Marocco, Algeria e Mauritania che, inserito dalle Nazioni Unite nella lista dei territori non autonomi nel 1963, conta oggi 44 anni di occupazione militare.
Oltre 7 milioni di mine antiuomo furono seminate lungo quel muro per creare una zona cuscinetto fra i territori liberati – tutt’oggi amministrati dal Fronte Polisario ed equivalenti a meno di un terzo del territorio originario, privi di risorse e infrastrutture, sottoposti a un forte embargo economico – e quelli occupati, con accesso all’oceano e ricchi di fosfato nel terreno. Minare il territorio: una tecnica militare che si sarebbe poi trasformata in un’arma per la colonizzazione del Sahara Occidentale da parte del Marocco, in grado di danneggiare profondamente il tessuto sociale della popolazione originaria e impedirne il tradizionale modo di vita nomadico.
Lo scorso mese di gennaio, il Fronte Polisario ha concluso l’opera di smantellamento e distruzione delle mine antiuomo disseminate nei territori liberati del Sahara Occidentale, dopo che nel 2005 aveva sottoscritto l’”Impegno al divieto delle mine antiuomo”. L’ufficio di coordinazione sahrawi per lo smantellamento delle mine (SMACO), secondo le parole del suo rappresentate intervistato, Mohamed Brahim Malainin, si è disfatto di 21’030 mine, di cui una parte costituiva uno stock bellico confiscato all’esercito marocchino ai tempi della guerra. Altre 16’803 munizioni ed esplosivi sono stati distrutti. Oltre a ciò, 117’456’212 m2 di territori e 8’583 km di strade sono stati messi in sicurezza. Come testimoniano gli stessi numeri, l’obiettivo è duplice: creare uno spazio di pace da un lato e mandare un messaggio forte alla Comunità internazionale dall’altro.
La lunga storia del conflitto fra il popolo sahrawi e il Regno del Marocco inizia nel 1975, quando, con la cosiddetta Marcia Verde, 300’000 fra civili e soldati marocchini invadono i territori. È l’inizio dell’occupazione, da sempre illegale secondo il diritto internazionale, alla quale risponde il neonato Fronte Polisario, dichiarando guerra al Marocco e proclamando, l’anno successivo, la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. Dal 1975 si aprono 15 anni di conflitto armato, segnati dalla costruzione del muro da parte del Marocco e dalla disseminazione di milioni di mine antiuomo, la cui responsabilità va in parte anche data ai guerriglieri del Fronte Polisario. Nel 1991 intervengono le Nazioni Unite chiedendo e ottenendo una tregua: entra in scena la MINURSO, la missione dell’ONU per l’organizzazione del Referendum di autodeterminazione del popolo sahrawi. Un Referendum di vitale importanza per un popolo intero, da finalizzare entro sei mesi dall’arrivo della MINURSO; eppure ancora oggi, a 28 anni di distanza, nessun Referendum è stato organizzato. Colpa soprattutto del Marocco, che ha sempre avuto interesse a prendere tempo e bloccare le trattative; colpa sicuramente dei suoi alleati europei, Francia e Spagna in primis; colpa della burocrazia della stessa Comunità internazionale, troppo spesso al servizio dei potenti.
Oggi la situazione è tragica: 173’000 sahrawi vivono in esilio nei campi profughi della vicina Algeria, mentre nei Territori Occupati i 44 anni di colonizzazione hanno già comportato un cambiamento demografico; una rigida politica di apartheid impone evidenti discriminazioni a quella che è ormai diventata la minoranza sahrawi; i diritti umani e le libertà sono negati in toto.
Lo ha visto dal vivo chi scrive questo articolo, arrestato ed espulso dai servizi segreti marocchini per il semplice fatto di aver intervistato degli attivisti locali. Lo scorso dicembre 2018 sono riprese le negoziazioni fra Fronte Polisario e Regno del Marocco a Ginevra, a sei anni dall’ultimo tentativo andato in fumo. Il Referendum per l’autodeterminazione rimane l’appannaggio di una parte e lo spauracchio dell’altra, ma quantomeno si è ricominciato a parlare. Nel frattempo, lo smantellamento delle mine da parte del Fronte Polisario è sicuramente un segno di pace che allontana di un poco l’altra eventualità all’orizzonte, il ritorno alla guerra. Il Marocco e la Comunità internazionale sapranno fare altrettanto?
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