di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca
L’elezione di Volodomyr Zelensky nelle elezioni presidenziali ucraine aprirà una nuova fase nella storia del tormentato paese slavo e in particolare nei rapporti con il vicino russo? Tutto fa ritenere di sì, ma verso quali lidi è ancora difficile prevedere.
Alla testa dello Stato ucraino è giunto un comico televisivo senza alcuna esperienza politica precedente. Per questo molti mass-media occidentali hanno parlato di un nuovo “caso Beppe Grillo” e hanno accostato il suo approccio populistico a quello di Donald Trump. In realtà Zelensky non ha neppure calcato la mano sulla generalizzata corruzione che avvolge l’Ucraina e neppure ha agitato temi divisivi come fece nel 2016 il tycoon americano. Sulla disastrosa situazione economica (il reddito medio annuale dei cittadini ucraini è di circa 2200 dollari l’anno, l’assegno di pensione minima si ferma a 40 dollari al mese) è rimasto sul vago promettendo solo trasparenza, riduzione generalizzata delle tasse e aumento dei salari: è in politica estera dove ha giocato le sue migliori carte. Ha promesso la fine delle discriminazioni per chi parla russo (“per passare completamente all’ucraino ci vorrà una generazione”), una trattativa su Crimea e Donbass pur senza non cedere di un millimetro sulla integrità territoriale e si è dichiarato favorevole anche all’entrata dell’Ucraina nella Ue e Nato ma solo a condizioni che la decisione venga assunta attraverso referendum popolare.
Sulla guerra del Donbass che insanguina la regione sudorientale del paese da 5 anni e ha provocato oltre 12mila vittime, il suo messaggio si è colorato di vago pacifismo “Vietman-style”: “riportiamo i nostri ragazzi a casa” dicevano i suoi manifesti elettorali. Tanto è bastato per sconfiggere, con amplissimo margine, nel ballottaggio del 21 aprile scorso lo screditato presidente uscente Petro Poroshenko. Nelle regioni orientali – tradizionalmente russofone – Zelensky ha raggiunto un consenso “bulgaro” superando l’88% delle preferenze ma anche nel centro e nel sud dell’Ucraina ha superato l’asticella del 75% cedendo al suo avversario solo le provincie della Galizia orientale. È interessante notare come nella campagna elettorale la destra neofascista ha giocato un ruolo molto marginale, segno di quanto (come emerso un mese fa da un’inchiesta di giornalisti ucraini sull’organizzazione razzista S14 dimostratasi legata ai servizi segreti) di essere poco più che una creatura del potente ministro Arsen Avakov, egemone solo nelle pur pericolose azioni contro la sinistra, il movimento femminista e lgbt.
L’atteggiamento dell’amministrazione americana è stato ambivalente e per certi versi confuso. Gli americani non hanno mai nascosto il loro interesse per i destini dell’ex Stato sovietico. Interessi geopolitici vista la volontà della Nato di ampliare la propria influenza a Est, ma anche economici: alcuni comparti dell’industria bellica come l’aviazione restano di ottimo livello e le fertilissime “terre nere” potrebbero essere interessare i colossi statunitensi del settore agroalimentare. In un intervento pubblico a inizio campagna elettorale, l’ambasciatrice Usa Marie Yovanovitch ha accusato Poroshenko di “proteggere la corruzione nel sistema giudiziario”. L’attacco venne considerato un chiaro endorsment per Yulya Timoshenko, considerata a Washington la più credibile succeditrice allo screditato Poroshenko. Tuttavia l’ascesa di Zelensky ha fatto cambiare i piani della Casa Bianca. I diplomatici statunitensi non hanno quindi perso tempo e hanno contattato il comico per saggiarne le qualità e i punti di vista.
Ciò che preoccupa gli Usa è naturalmente l’apertura, seppur timida, che quest’ultimo vorrebbe fare a Putin sul Donbass. Per cui alla fine hanno deciso di sostenere in qualche modo Poroshenko, giustificata in chiave anti-populista. Il rappresentante Usa per i negoziati in Ucraina Kurt Volker ha dichiarato che “ora l’ opinione pubblica ucraina si trova di fronte a una scelta. Vogliono qualcuno come Zelensky vada contro l’establishment e promette riforme radicali? O vogliono riconfermare qualcuno che forse è stato deludente per certi aspetti, ma ha fatto più riforme di chiunque altro in Ucraina negli ultimi 20 anni e ha resistito a Putin?”
La Russia, da parte sua, aveva fatto capire che avrebbe preferito qualsiasi candidato alla testa dello Stato slavo che non fosse Poroshenko, ben sapendo che il candidato filo-russo Yurii Boyko non aveva chance di essere eletto (11,5% dei voti al primo turno). Il Cremlino ha continuato a sostenere la necessità di una trattativa tra i due paesi ex-sovietici “depoliticizzata”.
Malgrado il consenso plebiscitario ottenuto, Zelenky ha di fronte a sé molti ostacoli. Il paese nell’ultimo lustro è rimasto a galla grazie agli oltre 10 miliardi di dollari generosamente profusi dal Fmi e dalla Ue ma entrambe, le istituzioni del capitalismo mondiale hanno messo in chiaro che ulteriori prestiti saranno possibili se il nuovo presidente implementerà programmi neoliberali come la riforma del mercato del lavoro e l’aumento a livello di mercato delle tariffe. Lo scorso novembre quando Poroshenko tentò di aumentare i prezzi del riscaldamento, però la protesta che ne scaturì si trasformò rapidamente in rivolta sociale con barricate, scontri con la polizia e assedi delle sedi delle amministrazioni locali in diverse città. Anche il suo dilettantismo politico che per ora è stato un’arma propagandistica di successo rischia di trasformarsi in un boomerang.
L’Ucraina è una repubblica semi-presidenziale per cui il partito recentemente creato da Zelensky (denominato Servire il popolo ) dovrà, nelle incombenti elezioni del prossimo ottobre, provare a conquistare un consistente gruppo parlamentare per potere indirizzare a suo piacimento il paese. Questo limite attuale è venuto a galla subito dopo il voto quando la Rada ha approvato la legge che rende l’ucraino definitivamente l’unica lingua di Stato, una misura che Zelensky – in continuità con le sue promesse elettorali – avrebbe voluto rendere meno punitiva per i russofoni. Tuttavia mancandogli ancora una propria maggioranza parlamentare, non ha potuto emendare la legge.
La sua stessa promessa elettorale di condurre un’offensiva mediatica verso il “Donbass ribelle” attraverso la creazione di una tv propagandistica di stampo europeo in lingua russa, rivolta agli ucraini di Donetsk e Lugansk rischia già di scontrarsi con la coriacea resistenza di Vladimir Putin. Il capo del Cremlino non ha, come sarebbe consuetudine, telefonato al neo-eletto per congratularsi del successo ma ha lanciato una insidiosa campagna di assimilazione alla Russia di quanti più ucraini possibili. Con un decreto firmato alla fine di aprile d’ora in poi tutti gli ucraini (non solo quelli del Donbass ma anche i tre milioni di migranti che vivono e lavorano in Russia) potranno ottenere immediatamente il passaporto russo e non dovranno rinunciare a quello ucraino. L’obiettivo strategico è quello di frenare il calo demografico che secondo la Banca Mondiale potrebbe portare a un calo della popolazione russa dagli attuali 138 milioni a 121 entro il 2050.
Ma l’obiettivo tattico è quello di creare una base di massa di cittadini russi dentro l’Ucraina, una sorta di “quinta colonna nel territorio nemico”. Una mossa che ha portato scompiglio nell’inesperto staff di Zelensky. “Bene, anche noi, daremo la nazionalità a tutti i russi” ha replicato l’ex comico. Una boutade che però Putin ha preso sul serio: “Bene vuole dire che a breve avremo un unico Stato russo-ucraino” ha ironizzato, ma neppure troppo, il presidente russo.
In realtà secondo lo Zar del Cremlino la via che conduce alla pace nel Donbass è ostruita dalla posizione di Zelensky “contraria a garantire l’amnistia ai combattenti delle repubbliche popolari del Donbass”. Nei prossimi mesi vedremo come proseguirà questa infinita partita di scacchi diplomatico-militare tra i due paesi slavi.
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