di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente
Il weekend di sangue del 4 e 5 maggio, costato la vita a 25 palestinesi, molti dei quali civili, uccisi dai bombardamenti dell’aviazione dello Stato ebraico, e a quattro cittadini israeliani colpiti dai razzi sparati dai palestinesi, ha confermato l’insostenibilità della situazione della Striscia di Gaza, di fatto una prigione per oltre due milioni di persone, stretta nel blocco terrestre e marittimo attuato da Israele da 12 anni a questa parte.
I media tradizionali anche in questa occasione non sono stati capaci o non hanno voluto andare oltre la cronaca di attacchi e rappresaglie, di raid aerei e lanci di razzi.
Avrebbero dovuto informare l’opinione pubblica mondiale dell’aggravarsi anno dopo anno delle condizioni di vita a Gaza dove, solo per citare un dato, il 97% dell’acqua, anche quella filtrata, non è potabile secondo gli standard internazionali.
Avrebbero potuto raccontare della scarsità di energia elettrica, della disoccupazione ai livelli più alti al mondo, della metà della popolazione che sopravvive grazie agli aiuti alimentari internazionali o degli istituti di carità religiosi, e dell’emergenza ambientale causata dal limitato (a dir poco) smaltimento dei rifiuti, dal mancato trattamento delle acque nere e anche, secondo studi di scienziati internazionali, da ciò che lasciano sul terreno i bombardamenti israeliani.
Un aspetto di estrema gravità di questo dramma umanitario (conseguenza di quello politico) è la precarietà del sistema sanitario di Gaza. Non esageriamo scrivendo che da anni i 31 ospedali, centri specializzati e cliniche attrezzate disponibili lavorano costantemente in una situazione di emergenza per scarsità di medicinali, sale operatorie, strumenti diagnostici, con medici e infermieri costretti a fare turni massacranti, spesso senza ricevere il salario per mancanza di fondi.
In particolare dal 30 marzo 2018, quando sono cominciate le manifestazioni settimanali contro il blocco di Gaza nel quadro della “Grande marcia del ritorno” a ridosso delle linee di demarcazione con Israele. Ogni venerdì i malandati ospedali di Gaza, a cominciare dal meglio attrezzato Al Shifa, accolgono centinaia di feriti, decine dei quali in condizioni critiche perché colpiti dagli spari dei tiratori scelti israeliani. Non pochi di questi feriti, una volta operati, vengono rimandati a casa nel giro di due o tre giorni perché non c’è modo di assisterli sul lungo periodo e perché occorre lasciare i loro letti ad altri feriti gravi che arriveranno nei giorni successivi.
Ad aggravare questa situazione sono anche le divisioni politiche palestinesi e lo scontro tra l’Autorità nazionale (Anp) del presidente Mahmoud Abbas e il movimento islamico Hamas che nel 2007 ha preso il controllo di Gaza. L’Anp, tra le altre cose, ha tagliato del 30 per cento il già magro stipendio di 60 mila dipendenti pubblici, tra cui gli operatori sanitari. All’inizio dell’anno per le strutture sanitarie di Gaza si è ripresentato in forma drammatica il problema della mancanza di carburante: i 13 ospedali hanno bisogno di 300.000 litri di gasolio al mese per far funzionare i generatori autonomi durante le interruzioni di corrente che durano anche per 18-20 ore al giorno. Due ospedali pediatrici, Nasser e Rantissi, per alcuni giorni hanno dovuto chiudere per mancanza di energia. E i dirigenti di altri quattro hanno preso la stessa decisione poco dopo. In quei giorni l’ospedale dei Martiri di Al-Aqsa ha trasferito 2500 litri di gasolio dai propri serbatoi all’ospedale di ostetricia della Mezzaluna degli Emirati nella città di Rafah, che stava per interrompere la sua operatività. In questo modo non fu messa a rischio la vita di donne incinte che avevano bisogno di tagli cesarei. Un esempio dell’aiuto che le varie strutture sanitarie provano a darsi durante le emergenze più gravi di quelle per così dire “ordinarie”.
Quella crisi è stata poi evitata grazie alle donazioni di decine di milioni di dollari messe a disposizione del Qatar – solo dopo l’obbligatoria autorizzazione di Israele - per l’acquisto del gasolio per l’unica centrale elettrica di Gaza e per gli ospedali. Ma le emergenze dovute all’esaurimento del combustibile sono continue e in futuro rischiano di avere conseguenze catastrofiche per centinaia di pazienti, tra cui decine di minori, con problemi renali che si recano alle 128 apparecchiature per la dialisi. Per i neonati prematuri nei reparti maternità. Per i pazienti che necessitano trasfusioni se saranno costrette a sospendere le loro attività le dieci banche del sangue. Senza dimenticare le 40 camere operatorie in cui quotidianamente si effettuano 250 operazioni.
E’ lungo l’elenco delle gravi conseguenze di una possibile paralisi totale del sistema sanitario di Gaza a causa della mancanza di energia elettrica, di scorte insufficienti di farmaci e macchinari e dei fondi necessari per il funzionamento delle strutture e il pagamento dei salari di medici ed infermieri.
Così come è lunga la lista dei problemi legati alle condizioni di vita generali della popolazione destinati ad aggravarsi nei prossimi anni se non avrà termine il blocco israeliano di Gaza e non saranno avviati importanti progetti infrastrutturali ed economici.
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