di RedQ
Claudia (nome noto alla redazione) è una giovane ticinese che ci racconta quello che definisce il suo “calvario” nella realtà del precariato nel nostro cantone. Vicina alla quarantina d’anni, Claudia afferma di poter solo “vivere a metà”.
Il suo percorso professionale e le condizioni di lavoro in cui si trova non le permettono, per esempio, di “pensare a una famiglia”. Con quel che guadagna riesce a coprire a fatica le sue spese. “Faccio parte di quelli che vedono gli amici uscire al weekend ma io non posso permettermelo, al massimo devo scegliere un sabato al mese, se riesco a risparmiare, ma non di più”.
Dopo gli studi in creazione web e grafica, la prima tappa per affacciarsi sul mondo del lavoro è quella degli URC, Uffici regionali di collocamento. “Molti dei miei colleghi ci sono passati”. Iscrizione in disoccupazione, lettere e ricerche d’impiego. Lì scopre una realtà nuova, per certi versi quasi formativa. “Ho capito due cose degli URC: la prima che è una vera lotteria, nel senso che puoi capitare sul consigliere che ti dà una mano come su quello che ti tratta come un numero, un peso di cui sbarazzarsi, questo perché devono incasellare tutti il più presto possibile”. Ma soprattutto, tramite la disoccupazione, Claudia vive sulla propria pelle la condizione di “persona a basso costo per ditte che aprono e chiudono, aziende che falliscono e ricompaiono, che sanno di poter trovare nella disoccupazione personale per periodi di prova e stage e poi mandarli via come vogliono”.
In un groviglio di contratti opachi, indennità disoccupazione e “guadagno intermedio” si consumano le prime, intermittenti, esperienze lavorative. Claudia si occupa di fare la webmaster nel campo della pubblicità e della promozione. “Facevo sempre diversi giorni di prova, non pagati, e settimane di stage retribuite non dal datore di lavoro ma dalla disoccupazione”. La sensazione era quella di essere al servizio di chi “attinge” dagli URC “come se fossero dei self-service”. Poi lavora in un paio di piccole aziende dove i colleghi sono praticamente tutti “giovani, neolaureati e sottopagati”, tra chi è in prova e chi è in stage. “Il problema è che gli stages se va bene sono pagati tipo mille franchi al mese per un certo periodo ma poi cercavano spesso di allungare questo periodo”. Quando ottiene un contratto, a tempo parziale, il titolare le dice senza tanti giri di parole che il suo 60% è in realtà altro. Un tempo pieno ma pagato come un tempo parziale. “Tu vieni tutti i giorni in ufficio e poi, più in là, aumenteremo la percentuale”.
Mesi aggrappata ad una promessa di stabilità futura. Claudia scoprirà poi l’assenza di liquidità nelle casse di quella ditta e il vicino fallimento societario. “Fa male vedere come certi personaggi lasciano a casa da un giorno all’altro la gente, magari senza aver pagato il giusto, e poi cambiano il nome della ditta e ricominciano come se nulla fosse”. Durante questo lungo periodo, Claudia porta avanti parallelamente alcuni progetti grafici in modo indipendente. Esistono dei siti, delle piattaforme online, dove è possibile proporsi a potenziali clienti. O meglio, dove “aspetti di essere preso da qualcuno che ha bisogno di un logo, di un flyer, di un prospetto”. In pratica attendi davanti al computer che un’offerta venga pubblicata online e poi parte l’asta virtuale, tutti in concorrenza fra loro: verrà scelto “chi offre di meno”. Per una retribuzione a cottimo, al pezzo, che per lei varia da qualche decina a qualche centinaio di franchi e che “non comprende il lavoro di concezione e di ricerca, tutto questo tempo”. Meglio dunque lasciar perdere la realtà della cosiddetta “gig economy”, che permette tutt’al più di arrotondare ma fa vivere a metà.
Il precariato, inoltre, fa male alla salute. Ne sa qualcosa la nostra interlocutrice, che durante questi periodi di attesa a barcamenarsi tra promesse e tempo parziale imposto comincia ad avere dei sintomi preoccupanti. “Ero sempre di più in ansia, dormivo male la notte, sono andata a farmi vedere e mi hanno consigliato uno psicologo”. Poi la ditta chiude, nuovo passaggio dalla disoccupazione e ora un contratto a tempo determinato e a tempo parziale, presso un’azienda che sembra più seria delle precedenti. “Ora sto un po’ meglio, ma sono sempre sul chi vive e devo comunque guardarmi attorno se trovo qualcosa perché qui non è detto che mi daranno un posto stabile e a metà tempo faccio fatica, sopravvivo”. La vita a metà, dunque, continua.
Il sociologo Luciano Gallino – in un libro del 2014 e sempre attuale, “Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario” – affermava che il “culto della flessibilità” impostosi nel mondo del lavoro comporta dei costi umani e sociali che si traducono nella precarietà. Le “vite rinviate” sono quelle di chi deve passare, ad esempio, da una lunga sequenza di contratti a tempo determinato, senza alcuna certezza di riuscire a stipulare un nuovo contratto prima della fine di quello in corso o subito dopo. Questo implica insicurezza oggettiva e soggettiva, che diventa insicurezza delle condizioni di vita. La precarietà ha “revocato la normalità del lavoro e della vita”, dice Gallino, e finisce per “modificare anche l’interiorità delle persone”: essa limita la possibilità di progetti a lungo termine e previsioni riguardo al proprio futuro, sia professionale che esistenziale e familiare.
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