di Francesco Bonsaver
Intervista al giornalista Rsi Roberto Antonini, autore di un reportage nel nord-est della Siria prima dell'invasione turca.
Roberto Antonini,
Nato nel 1957, è Responsabile dell’approfondimento culturale della Rete Due della Rsi. Ha studiato Storia e Antropologia a Parigi. Giornalista dal 1984 è stato inviato in Africa e Medio Oriente, ed è stato corrispondente dagli Stati Uniti per la radio Svizzera Romanda dal 1995 al 2001. Ha ricoperto poi la carica di Capo dell’Informazione della Radio Svizzera fino al 2007. Tra i premi conferitigli per la sua attività giornalistica, il Prix Suisse 1999 (per il documentario “Huntsville, Texas”) , il “Grand Prix du Journalisme des Radios Publiques de Langue Française” (per il documentario “Dans les couloirs de la mort”), il “Premio Carla Agustoni “ attribuitogli nel 2009 per un reportage dalla striscia di Gaza e nel 2012 il premio dell’Associazione Ticinese di Giornalismo per il documentario “La solitudine del numero 19”. A fine maggio di quest’anno, ha realizzato un reportage per conto della Rsi “Tra Siria e Iraq oggi”, visibile sul sito d’informazione pubblica (www.rsi.ch/news/mondo/ Tra-Siria-e-Iraq-oggi).
Iniziamo da una prima curiosità, perché ha deciso di andare in Siria?
Nell’ultimo anno e mezzo, è la terza volta che vado in Siria, ma è stata la prima volta che ho visitato un’area interamente controllata dalle Forze democratiche siriane, una coalizione a maggioranza curda con le milizie Ypg. Quest’area, situata a est dell’Eufrate, copre un terzo della Siria e chiamata Rojava dai suoi abitanti, in gran maggioranza curdi. Questi territori sono molto interessanti dal punto di vista politico e istituzionale perché si sta cercando di implementare un’utopia. Il modello a cui si ispirano è il Confederalismo democratico teorizzato dal leader curdo del Pkk Abdul Ocalan, detenuto in isolamento da decenni in un carcere turco. Una teoria che s’ispira all’opera del filosofo americano Murray Bookchin. Non sono in grado di dire se sia riuscita o meno, ma l’impressione avuta nel breve soggiorno è che la strada imboccata sia quella giusta. C’è uno Stato secolare di struttura confederale, non centralizzata, in cui si respira la democrazia. Nel Rojava inoltre la questione della parità di genere ha un ruolo fondamentale al pari della laicità delle istituzioni. E lo si vede nella vita quotidiana.
Un giornalista scafato come lei, abituato a non cadere nelle trappole della propaganda, ha percepito veramente il tentativo di realizzare in Rojava una società più giusta, laica e rispettosa della parità di genere?
Quando sono stato nelle zone controllate dal governo di Damasco, avevo l’obbligo di girare con persone legate seppur indirettamente al ministero dell’informazione. Nel Rojava ho potuto invece girare liberamente, incontrare chi volevo e parlare con chi desideravo. Confesso che prima di partire per il Rojava, pensavo vi fosse molta propaganda nella realizzazione dell’utopia proclamata. Ho dovuto ricredermi. Ho costatato che vi è qualcosa di autentico, di reale nel progetto sociale. Ad esempio, è la prima volta che viaggiando in un paese a forte presenza musulmana, mentre è in corso il Ramadan, ho visto molte persone non rispettarlo. Inoltre si vedono per strada molte donne senza velo. Credo che la propaganda giochi un ruolo, ma ho visto una forte determinazione nel voler raggiungere gli obiettivi sociali prefissati. Tra la popolazione c’è in parte la consapevolezza di un esperimento sociale nuovo. Complessivamente, il mio giudizio sull’esperimento sociale del Rojava è, per quanto io abbia potuto constatare, dunque positivo. Naturalmente, nessuno è esente da critiche, nemmeno nel Rojava. Il giornale americano di sinistra The Nation, ha condotto un’inchiesta sulle rappresaglie contro le minoranze arabo-sunnite, accusate di aver sostenuto l’Isis. Non ho assistito personalmente alle rappresaglie, ma è purtroppo un fatto che avvengano spesso dopo una guerra o la liberazione da un sistema opprimente.
Quei territori si stanno riprendendo dai danni provocati dal conflitto?
Nelle regioni a prevalenza curda, la ricostruzione post bellica è in una fase avanzata. A Kobane migliaia di case sono state ricostruite, e i molti cantieri aperti testimoniano che la ricostruzione prosegue a un buon ritmo. Anche l’economia locale è in forte ripresa. Presumo che i fondi arrivino dalle comunità curde sparse nel mondo e dai gruppi di sostegno internazionali.
Lei ha potuto visitare la scuola costruita grazie ai fondi raccolti in Svizzera, di cui una parte importante raccolti in Ticino dal Comitato ticinese per la ricostruzione di Kobane. Che impressione le ha fatto?
Il giornalista cerca sempre di scovare qualche cosa che non funziona. Confesso di non averla trovata. È un bel edificio, funzionale, costruito in un quartiere periferico, dove prima non esisteva nessuna scuola. Quando sono arrivato era già tempo di vacanze estive, dunque non era frequentata dagli allievi. Ma ho potuto verificare che è utilizzata da una dozzina di classi, per un totale di circa 400 alunni. L’insegnamento è bilingue, curdo e arabo. Parlando col direttore, seppur molto soddisfatto del nuovo edificio scolastico, mi ha confidato che sarebbe molto importante trovare i fondi per istituire la figura di un consulente psicologico per aiutare i bimbi nel superare i traumi derivanti dal conflitto, in particolare ma non solo, la battaglia del 2015.
Dal punto di vista sanitario, com’è la situazione?
Si vedono sforzi notevoli nella sanità pubblica. Si vedono sforzi notevoli nella sanità pubblica. Ma le oggettive difficoltà economiche in cui versa la popolazione, impedisce loro di poter realizzare le cure a livelli occidentali. A Kobane vi è molta povertà sebbene non sia estrema come a Raqqa. Abbiamo ad esempio incontrato un donna affetta dal cancro al seno che non aveva i mezzi per curarsi.
La sicurezza invece?
Attualmente nella città di Kobane la situazione è relativamente tranquilla. Relativa poiché periodicamente vi sono degli attentati dell’Isis. Ma quel che veramente preoccupa la popolazione è quel che succederà nell’immediato futuro. Una parte del Rojava, la regione di Afrin, è sotto controllo delle milizie filo turche installatesi dopo l’invasione militare turca dello scorso anno con l’operazione “Ramoscello d’ulivo”. C’è dunque preoccupazione su cosa succederà a Nord con la Turchia, ma altrettanto a sud col governo di Damasco, intenzionato a riconquistare l’est dell’Eufrate. Per la popolazione del Rojava però, il timore maggiore resta la Turchia, poiché si pensa che con Assad sia possibile immaginare un compromesso d’autonomia di tipo confederale.
Nel Rojava c’è più speranza o è una questione di sopravvivenza, di rassegnazione alla resistenza?
C’è, mi pare, speranza. Sono rimasto impressionato della fierezza dei curdi, difficilmente riscontrabile nel mondo arabo. C’è molta consapevolezza politica dei progressi sociali in Rojava e degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Vedere questo processo, ti apre gli occhi anche sulla nostra realtà. È una regione che sta uscendo dalle macerie della guerra, con la volontà di costruire una società più giusta. Anche la convivenza tra i vari gruppi etnici è reale. Forse lo è perché esiste un nemico comune. L’Isis non governa più, ma rimane purtroppo presente nella regione, in particolare a Raqqa e dintorni, aree che non fanno comunque parte in senso stretto del Rojava.
Note dolenti?
I campi di detenzione in cui sono rinchiusi i familiari dell’Isis, la cui gestione spetta alla polizia curda, non alle milizie Ypg. Nei campi sono presenti i responsabili della Croce Rossa internazionale, ma vi sono seri problemi di rispetto dei diritti umani, dovuti soprattutto al sovraffollamento e le conseguenti dure condizioni di vita. Ad esempio, il campo di Al-Hol è stato concepito per 5mila persone, mentre oggi ne conta 80mila. I curdi ammettono l’esistenza del problema, ma sostengono che debba essere risolto dalla comunità internazionale, soprattutto dai vari paesi di provenienza dei combattenti dell’Isis. Ad oggi, ci sono solo tre paesi che hanno rimpatriato le famiglie dell’Isis: Russia, Kosovo e Kazakistan. Si pone poi la questione di chi e dove li si dovrebbe processare. Il Rojava, non essendo formalmente riconosciuto, non ha l’autorità giudiziaria per poterlo fare.
Lei ha potuto visitare anche Raqqa, città conquistata dalla forze siriane democratiche col supporto dell’aviazione americana. Com’è la situazione?
A Raqqa, dove la popolazione è a maggioranza araba sunnita, la situazione è completamente diversa da Kobane. La città è stata quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti americani. Esattamente lo stesso che fanno i russi quando bombardano delle regioni per favorire l’avanzata degli alleati governativi di Damasco. A Raqqa, il risentimento nei confronti degli americani per aver distrutto la città è alto. La popolazione inoltre vive in uno stato di povertà estrema, in cui la sicurezza non è per nulla garantita. Attentati, sequestri e violenza sono all’ordine del giorno. Le donne indossano quasi tutte il niqab. Con poche eccezioni, tra cui la sindaca Leila Mustafa, giovane donna coraggiosa: nella piazza in cui l’abbiamo intervistata, protetta da tre guardie del corpo, l’indomani due autobombe hanno fatto una ventina di morti. Tra Kobane, più laica, e Raqqa, rimasta fondamentalista, vi è un baratro su questo punto.
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