di RedQ
Incendio doloso nel ‘97, sgombero manu militari nel 2002 e il resto del tempo vissuto sul filo di una precarietà costante. Non si può dire siano stati noiosi i 23 anni di esistenza del Centro sociale autogestito il Molino.
Due decenni vissuti con fierezza dalle generazioni di molinari succedutesi nella pratica quotidiana dell’autogestione di uno spazio libero dalle meccanicità del “produci, consuma, crepa” e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Suonano quasi miracolosi quei 23 anni di laboratorio politico e sociale, vissuti in aperto antagonismo ai valori del potere economico della terza piazza finanziaria del Paese.
Perché difficilmente si può trovare convergenza tra quel che rappresentano un Bertini o un Borradori (ancor peggio il pluristipendiato pubblico Quadri) e i valori dell’autogestione dei molinari. L’unica coesistenza possibile è data dalla forzata accettazione dei reciproci rapporti di forza e dalla volontà di mantenere il conflitto nei confini della gestibilità. Non è cosi complicato.
Quei 23 anni sono la dimostrazione di quanto il problema sia un non problema. Dalla sua nascita, il Molino lotta per la sua esistenza, fin dal suo primo giorno di quel lontano autunno del 1996. Le generazioni di politici che si sono succeduti, in particolare quelli a caccia di voti facili sparando su migranti e molinari, hanno ripetutamente sollevato l’inutile questione in cerca di notorietà elettorale. L’ultimo attacco è solo l’ennesimo capitolo del voluminoso libro. Se esistesse un poco di onestà intellettuale e di memoria storica in questo lembo di terra, lo si riconoscerebbe.
Pensate davvero sia casuale l’uscita del messaggio municipale in cui si esclude l’autogestione a pochi mesi dalle elezioni comunali? Siam pronti a scommettere che il fatidico concorso internazionale uscirà a gennaio, giusto in tempo per tirare gli ultimi schizzi di campagna dello stregone di turno. Far diventare prioritario qualcosa che non lo è nemmeno lontanamente, è un’abilità che va riconosciuta ai politicanti ticinesi, luganesi in particolare. L’assenza di spirito critico nei media nostrani, diffonde il vuoto cosmico nella gran cassa a reti unificate, assurgendolo a priorità assoluta. Le priorità di una città proiettata nel futuro.
È davvero prioritario per la popolazione luganese spendere una trentina di milioni di soldi pubblici per realizzare un progetto farlocco tinto da parole sbiadite come coworking, quando il cui unico scopo è chiudere l’esperienza dell’autogestione?
Alloggi a pigione moderata, centri sportivi per la popolazione, un vero percorso cittadino di piste ciclabili, il potenziamento dei mezzi di trasporto pubblico nelle realtà periferiche dimenticate dalla “grande” Lugano, non dovrebbero essere prioritarie per il bene collettivo? Mettiamoci pure la spiaggia sul lungolago, la creazione di strutture congressuali in grado di garantire un turismo lungo tutto l’arco dell’anno, dei centri d’urgenza per i senza tetto, delle case per le attività sociali di quartiere, gli aiuti alla popolazione anziana, ai disoccupati. La lista su come spendere quei trenta milioni della collettività è lunga, molto lunga.
Ma i politicanti locali preferiscono lanciare fumogeni quali armi di distrazione di massa per nascondere le vere priorità. A proposito di turismo congressuale, sapete quando l’esecutivo luganese ha varato il primo concorso per il nuovo centro in sostituzione del decrepito Conza? 2001, diciotto anni fa. Ecco la gestione delle priorità degli amministratori cittadini. Lugano non ha nemmeno un piano regolatore unificato, obbligatorio dopo le aggregazioni di un ventennio fa. Eppure una gestione ragionata dell’uso del territorio comunale nell’interesse generale, sarebbe cosa logica e utile.
No, la priorità è annunciare al mondo l’esclusione dell’autogestione dall’ex macello per l’ennesimo progetto fumoso sul sedime che costerà un’altra inutile paccata di soldi.
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