di Tullio Togni
«Mi chiamo Nekane Txapartegi: perseguitata, fuggitiva, rifugiata politica basca. E anche mamma e femminista». È “una storia nella storia”, una biografia in costruzione e già segnata dal tempo, che trova le sue radici nella guerra civile spagnola vinta dai falangisti o forse prima ancora.
Una storia che percorre i 36 anni del regime dittatoriale di Franco, la cosiddetta transizione alla democrazia e uno fra i conflitti interni più longevi d’Europa, quello fra lo Stato spagnolo e l’organizzazione clandestina indipendentista Eta (Euskadi ta Askatasuna/Paese Basco e Libertà), terminato – almeno sul piano militare – con la cessazione dell’attività armata da parte di quest’ultima nel 2011 e la successiva dissoluzione nel 2018.
Nekane Txapartegi è una donna, un’attivista, una mamma, una rifugiata politica basca. La sua è una storia lontana dalla narrazione ufficiale, testimonianza viva di un’esistenza nel fervore dell’attivismo per l’indipendenza basca e destinata a dover fare i conti con la prigione e l’esilio. E, soprattutto, con la tortura. La sua è la storia e la voce di chi si batte per impedire che altri – e specialmente altre – debbano passare quanto è successo a lei.
«Iniziai a essere attivista molto presto: la prima manifestazione che segnò la mia personalità fu quando avevo 8 anni. Ricordo che successe quando uccisero una persona del mio paesino, dopo averla torturata. Ricordo il clima di paura e di terrore collettivo che colpiva tutta la comunità, non soltanto all’interno della famiglia. Allora io non sapevo che cos’era la tortura, ma diversi anni più tardi l’avrei vissuta personalmente. Da allora è stata una lotta continua».
L’avrebbe vissuta, Nekane, la tortura, alla fine degli anni 90, in un clima politico di alta tensione in cui la magistratura spagnola decise di adottare la politica del “tagliare la testa al serpente”, che nella pratica si tradusse nel considerare parte di Eta anche chi era attivo in movimenti sociali o gruppi politici indipendentisti non affiliati alla lotta armata. Ciò portò alla chiusura del giornale Egin e all’arresto della direzione del partito Herri Batasuna, considerato il braccio politico di Eta. Nel 1999 toccò all’allora 26enne Nekane Txapartegi, a quel tempo giornalista e consigliera comunale del paesino di Asteasu. Arrestata dalla Guardia Civil, come a tutti i prigionieri accusati di “terrorismo” le fu applicato il regime di Incomunicación, un periodo di 5 giorni in cui il detenuto sparisce a tutti gli effetti da ogni radar vedendosi negato ogni contatto con l’esterno, anche con gli avvocati.
«In quel momento iniziò una nuova fase della mia vita: c’è un prima e un dopo. Perché la tortura lascia il segno. Capii che avevo sopravvissuto, che ero una sopravvissuta, e così cominciai una battaglia con la volontà di essere un soggetto politico. Decisi io stessa di uscire viva da quel commissariato, e da allora sentii il dovere personale e collettivo di parlare, di testimoniare, di dire a tutti ciò che mi era successo. Ciò che ci era successo, perché è una storia al plurale che riguarda tutti».
Quello a cui Nekane era sopravvissuta era stata la tortura fisica e psicologica: dai pestaggi fino all’applicazione di un sacchetto in testa, passando per le minacce di vendetta trasversale. E, soprattutto, era stata la violenza sessuale da parte di 4 agenti della Guardia Civil. In queste condizioni, Nekane fu costretta a firmare una dichiarazione in cui ammetteva di aver fornito documenti falsi a due militanti di Eta nel quadro di una riunione tenutasi a Parigi.
Uscita da questa sua prima incarcerazione dopo 9 mesi dall’arresto previo pagamento di una cauzione, nel 2007 arrivò il Maxi Processo Sommario 18/98, in cui ad essere condannate furono 75 persone appartenenti a varie realtà indipendentiste. «Sapevamo che era un processo politico e che avrebbe emesso delle sentenze politiche. Non si stavano perseguendo dei delitti, ma delle idee, dei progetti. Io sapevo che la mia difesa sarebbe stata la mia testimonianza sulle torture subite e i protocolli che lo attestavano. Fu molto duro, ma ne uscii rafforzata, perché portai la voce dei torturati e delle torturate proprio all’interno dell’Audiencia Nacional, quel tribunale di tradizione franchista che in quel momento stava processando il popolo basco. Riuscii a raccontare quello che avevo passato, e addirittura riconobbi alcuni degli agenti presenti».
La scelta dell’esilio
Non venne creduta, Nekane, e nemmeno i protocolli che attestavano le torture furono presi in considerazione. La condanna, basata sulle stesse imputazioni che l’avevano portata all’arresto nel 1999 e che si costruivano su documenti firmati sotto tortura, fu un castigo anche per aver denunciato quanto le era successo: oltre 11 anni, poi ridotti a 6 e 9 mesi in un secondo momento.
Decise così di fuggire, scelse l’esilio per sottrarsi alla sorte di quelli che oggigiorno sono ancora più di 250 prigionieri baschi che si rivendicano “politici”, dispersi nelle varie carceri della Francia e dello Stato spagnolo a migliaia di chilometri di distanza dai propri cari. Ma lo Stato spagnolo continuò a darle la caccia fino a quando, nell’aprile 2016, a Zurigo i servizi segreti spagnoli la localizzarono e ne ordinarono l’arresto. Un’attuazione, questa, ai limiti della legalità, poiché potenzialmente in contraddizione con il principio di sovranità degli Stati.
Nella primavera del 2016 si aprirono così le porte della prigione in Svizzera per Nekane, nell’attesa che venisse soddisfatta la richiesta di estradizione dello Stato spagnolo. «La nuova detenzione – racconta – riaprì le ferite, perché di nuovo entravo in uno spazio che mi ricordava le aule del commissariato dove ero stata torturata. Non sapevo a cosa aggrapparmi, confinata in cella 23 ore al giorno, senza nemmeno la possibilità di parlare in basco con mia figlia quando veniva a trovarmi. Inoltre, nel processo di richiesta di asilo che avviai, mi trovai a dover raccontare di nuovo tutte le torture e le violazioni sessuali subite, sapendo che la persona che mi stava ascoltando non mi voleva credere e che stava soltanto cercando delle possibili contraddizioni».
Nekane uscì dal carcere nel settembre 2017, dopo un anno e mezzo nell’atroce attesa dell’estradizione. La motivazione fu che la sua condanna era caduta in prescrizione e che quindi non era più valida. Nel frattempo, le autorità elvetiche le negarono l’asilo politico – lasciandola così esposta a ulteriori accanimenti giudiziari – nonostante ad attestare la validità delle sue testimonianze vi era il Protocollo di Istanbul, mentre già in altre 8 occasioni il Tribunale di Strasburgo aveva condannato lo Stato spagnolo per tortura o per non aver indagato a sufficienza sulle accuse di tortura; l’ultima nel 2016.
«Quando uscii di prigione ero felice, ma per il modo in cui ero uscita, per la prescrizione anziché il riconoscimento della tortura, ero addolorata: mi dicevo “sono passata dall’uscita posteriore, dalla porta più piccola”. Poi però mi resi conto che era stato un successo, che la mia lotta contro la tortura aveva dato i suoi frutti e che aveva smosso qualcosa, anche se poi sul piano giuridico avevano dato questa spiegazione per evitare una crisi diplomatica».
Ma pochi mesi fa, nel maggio 2019, lo Stato spagnolo ha formalizzato una nuova richiesta di collaborazione giudiziaria alle autorità svizzere per il caso Nekane Txapartegi, e in novembre 2019 ha emesso un mandato di arresto internazionale per l’attivista basca, con conseguente richiesta di estradizione. È dunque molto alto il rischio che Nekane sia costretta a tornare in prigione e debba riaffrontare i fantasmi del passato: primo fra tutti la tortura, quell’orribile Leitmotiv che la accompagna dall’età di 8 anni.
L’impegno femminista
Incontro Nekane davanti ai graffiti di Radio Lora, la radio indipendente zurighese in cui lavora da quando è uscita di prigione e nella quale gestisce una rubrica femminista. La voce è ferma e lo sguardo sicuro, e anche se il suo destino e quello di sua figlia sono precari e in balia di altri, sembra a tutti i costi voler tenere fede a quella promessa fatta a sé stessa una volta uscita viva dal commissariato. E, soprattutto, sa che alla repressione esiste un’unica risposta: resistenze, con declinazione al femminile plurale. «Io come donna basca ho subito una colonizzazione del territorio geografico e culturale, come pure un tentativo di colonizzare i nostri territori corpi. Nella mia vita ho sofferto oppressioni multiple, per essere donna, basca, proletaria e indipendentista. E allora è proprio qui, nel movimento femminista, che ho trovato il mio posto e il punto di partenza per far valere la mia voce, per cambiare tutto. E questo è un luogo in cui mi sento bene, in cui mi sento a casa».
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