Russia: il Covid-19 alimenta la crisi sociale

di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca

 

Fino al 26 marzo, giorno in cui Vladimir Putin ha annunciato a reti unificate la messa in quarantena dell’intero paese, si respirava una strana aria in Russia. I casi accertati fino ad allora erano solo 500, i morti 2 e la gente proseguiva il tran-tran abituale senza prendere alcuna precauzione.

Un comportamento dovuto anche a un approccio “minimalista” di stampa e televisione sulla diffusione e le conseguenze del virus. Un approccio paradossale e poco verosimile in un paese che ha 4500 chilometri di confine con la Cina e il secondo scambio commerciale in Europa con l’Italia, uno dei paesi più colpiti dal virus.

 

A denunciare la crescita esponenziale di Covid-19 fino ad allora era stato solo il combattivo sindacato “Alleanza dei medici” che denunciava quotidianamente la diffusione del virus, la congestione di molti ospedali di provincia e la mancanza di protezioni per il personale sanitario.

 

Poi dal 27 marzo le cose sono iniziate a cambiare, seppur confusamente. In primo luogo sono iniziati i controlli con i tamponi e la curva del numero degli infettati ha iniziato sorprendentemente ad impennarsi. Al 4 maggio i contagiati in Russia erano già oltre 140 mila (di cui il 50% concentrati a Mosca) ma il “picco” non sembrava ancora raggiunto visto che in quel periodo il numero di malati aumentava al ritmo sostenuto di 10 mila al giorno. Anastasia Vasilevna, leader del sindacato dei lavoratori della sanità, ritiene che in realtà il virus sia iniziato a propagarsi molto presto: “A gennaio l’Ufficio di statistica statale ha registrato un numero di polmoniti del 37% superiore rispetto all’anno precedente, ma già a febbraio il dato è diventato top-secret”. Resta anche da capire quali siano stati i criteri per definire i decessi per coronavirus, visto che i morti sarebbero solo l’1% dei casi sebbene il sistema sanitario del paese non brilli certo per efficienza, in particolare negli oblast orientali.

 

Come è accaduto anche per altri governi, il gabinetto russo si è mosso a tentoni nelle chiusure delle attività produttive. Secondo quanto sostiene il giornale dell’associazione degli imprenditori russi Kommersant, “le attività ‘strettamente necessarie’ tenute aperte dal governo non sono state solo quelle dell’approvvigionamento dei prodotti alimentari ma anche quelle legate all’export, in particolare quelle del settore energetico e nucleare”. Così, mentre il salario dei lavoratori delle grandi e medie imprese è stato coperto dallo Stato e sono stati previsti ammortizzatori sociali per pensionati e disoccupati, i più colpiti dalla quarantena sono risultati essere le piccole imprese – che per ora hanno ottenuto solo sconti tributari – e i lavoratori in “nero”.

 

In questo quadro, fortissime tensioni sociali, sfociate in manifestazioni di massa, sono emerse in alcune zone della Russia. A Vladikavkaz, capitale della Ossezia settentrionale, repubblica autonoma della Federazione russa, il 20 aprile un fiume di povera gente, donne e anziani si è riversata nella piazza dove ha sede il governo della repubblica gridando “Fame! Fame!”, rivendicando la riapertura delle aziende in lockdown e le dimissioni del governo. I dimostranti poi si sono scontrati per ore con la polizia e sono stati dispersi solo a sera tarda, 79 dei quali sono stati arrestati, e molti sono stati poi condannati a pene esemplari. La dimostrazione era stata organizzata dal gruppo “Cittadini dell’Urss”, un’organizzazione informale di nostalgici dell’Unione sovietica con tinte vagamente staliniane diretta da Vadim Celdiev, un ex soprano prestatosi alla politica convinto che il coronavirus non esista. Tuttavia la mobilitazione si è dimostrata ben più ampia di quello che il gruppo potesse prevedere, con dei tratti fortemente spontaneistici, all’interno di un quadro sociale caratterizzato da miseria e atomizzazione.

 

Sei giorni dopo, all’altro capo della Russia, nella Jacuzia siberiana, sono entrati invece in sciopero i contingenti della classe operaia di Gazprom. Nella zona di Chayandinskoye che alimenta il gasdotto “Forza della Siberia” hanno incrociato le braccia 10.500 operai e tecnici sparsi in 34 villaggi dove si trovano i giacimenti di gas, una forza-lavoro di un settore strategico che garantisce le esportazioni indispensabili per l’economia russa. I lavoratori rivendicavano protezioni basilari contro il virus come guanti e mascherine e “l’approntamento di ospedali mobili vicino alle case e ai dormitori”. Ma la tensione creatasi nei giacimenti della Jacuzia è anche il prodotto di un costante peggioramento delle condizioni di vita. In un video circolato sul web, i lavoratori della Jacuzia rivendicavano anche vitto migliore nelle mense: “Ci date delle poltiglie come ai maiali”, sostenevano a gran voce i lavoratori.

 

A causa della pandemia, Vladimir Putin è stato anche costretto ad annullare la parata per il 75° anniversario della vittoria sul nazifascismo del 9 maggio e soprattutto a rinviare il referendum per l’approvazione di importanti riforme costituzionali da lui fortemente volute (introduzione di un emendamento che introduce la superiorità delle leggi russe su quelle del diritto internazionale, possibilità per il presidente in carica di restare alla presidenza altri 12 anni alla scadenza del suo mandato nel 2024). Un voto dall’esito scontato ma che il capo del Cremlino vorrebbe si trasformasse in un plebiscito-salvacondotto per restare al potere fattualmente all’infinito. Tuttavia in autunno a causa della recessione in arrivo – amplificata anche della convergente caduta del prezzo del petrolio su scala mondiale – potrebbe riservargli delle cattive sorprese: se c’è qualcosa che il Cremlino e l’oligarchia russa temono sono l’esplosione di tensioni e proteste sociali in primo luogo nelle grandi città del paese

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