di Francesco Bonsaver
La vendita al dettaglio alimentare era uno dei pochi settori economici attivo durante la fase acuta dei contagi da coronavirus.
Un periodo straordinario contrassegnato da tanto lavoro e stress psicologico per i dipendenti, ma anche dall’orgoglio di svolgere un lavoro essenziale per la comunità. Un mestiere le cui condizioni non miglioreranno, di certo non nel breve termine, con la nuova legge e il Ccl cantonale.
Ora possiamo confessarlo. Nel pieno della pandemia, quando tutto era chiuso, ben pochi di noi provavano piacere a far la spesa alimentare. Anzi. Quelle decine di minuti trascorsi all’interno dei supermercati per approvvigionarsi, sembravano interminabili. Ci si aggirava tra gli scaffali e i banconi con sguardi timorosi e diffidenti, desiderosi di uscirne al più presto. Una possibilità negata ai dipendenti, obbligati a restarvi ben più a lungo dei tempi normali di lavoro. Gli scaffali rapidamente svuotati andavano costantemente riempiti, mentre l’occhio vigile doveva controllare il rispetto delle norme igieniche e delle distanze sociali, assumendo a volte l’ingrato ruolo del paciere negli occasionali diverbi tra clienti particolarmente ansiosi.
Ad aggravare la tensione psicologica delle dipendenti, la paura del contagio.
No, non è stato un periodo facile per i venditori e le venditrici. Giustamente buona parte della clientela ne ha riconosciuto gli sforzi, chi ringraziandoli di persona o tributando collettivamente l’applauso dai balconi. Vedersi riconosciuto dalla popolazione il proprio lavoro quale contributo indispensabile, li ha riempiti d’orgoglio. «Il riconoscimento sociale di lavoratore essenziale è stato vissuto molto positivamente dai venditori e dalle venditrici. Un sentimento di cui molti ci hanno voluto rendere partecipi» confida Giangiorgio Gargantini, segretario di Unia e responsabile del terziario. «L’alzarsi nelle mattine di marzo e aprile per fornire un servizio fondamentale, è stato motivo d’orgoglio e di ritrovata dignità del proprio mestiere. Una dignità calpestata negli ultimi anni in termini di condizioni e stipendi. Val la pena sottolineare che quando i lavoratori rivendicano i propri diritti, non lo fanno per attaccare l’azienda, ma per una questione di dignità».
Gestire la paura del contagio dall’esser quotidianamente esposti al contatto con la clientela, non è stato per nulla scontato, raccontano le testimonianze di venditrici e venditori raccolte. Il virus, di cui poco o nulla ancora oggi si sa della sua modalità di trasmissione, era un nemico invisibile ma sempre presente nei pensieri.
Dati certi sui contagi tra il personale della vendita in quel periodo non ne esistono. La stampa domenicale si è affidata alle dichiarazioni dei portavoce dei grandi gruppi di commercio al dettaglio. Nella loro versione, tutto è andato benissimo «perché le misure da noi adottate sono state efficaci». Differente la percezione contenuta nelle testimonianze raccolte tra le dirette interessate, dove dei casi di contagio tra venditrici e venditori ci sarebbero stati in maniera significativa. Nonostante il legittimo riserbo nel nasconder la malattia per paura di esser tacciati di untori, tra colleghi, ci si parla. O le assenze, specialmente dopo qualche giorno di colpi di tosse dati di nascosto, seppur non spiegate, sono state interpretate. Purtroppo dati indipendenti non ne esistono. In Svizzera, a differenza di altri paesi europei, il mestiere dei contagiati non è stato considerato nelle statistiche federali o cantonali.
In Ticino – ha risposto ad area l’Ufficio del medico cantonale – si è iniziato a contabilizzarle solo dal 4 maggio, quando ormai i numeri dei nuovi contagi erano da giorni, fortunatamente, notevolmente calati. Della professione degli oltre 3.200 contagiati registrati in precedenza (salvo quelli degli operatori sanitari), non si sa nulla.
Col calo dei contagi, è arrivata la fase dell’allentamento, del rilassamento generale, dove far comprendere l’importanza di garantire ugualmente il rispetto delle norme nei negozi è diventato molto complicato. Tanto più che, quando il dipendente lo fa notare a una clientela, purtroppo in crescita, meno rispettosa, rischia di beccarsi l’ammonimento aziendale. Se lo stress ansiogeno si è in parte attenuato, altrettanto non si può dire delle gravose condizioni di lavoro. «Per noi, non è cambiato nulla», aveva raccontato ad area un gerente, pochi giorni dopo il superamento del picco cantonale dei contagi. Sorpresi, gli avevamo chiesto se le loro condizioni non fossero peggiorate durante la fase acuta. «Certo, il carico delle mansioni e le ore di lavoro sono aumentate, soprattutto nel mese iniziale. Ma intendevo dire che, in buona sostanza, le nostre condizioni di lavoro erano già difficili prima, durante e lo saranno dopo la Covid. Di miglioramenti, non se ne sono visti e nemmeno se ne intravedono per il futuro».
Ecco spiegato il senso della frase iniziale. «Salvo io che sono all’80% perché gerente, i miei colleghi sono tutti al cinquanta per cento. Questo vuol dire che il personale, pur essendo sempre a disposizione, viene impiegato quando non si può farne a meno, ma la paga resta quella. Da gerente cerco di parare il colpo, ma non posso far miracoli».
Infatti, a regolare i turni di lavoro nelle grandi catene, non sono degli esseri umani, ma dei computer. Algoritmi calibrati per massimizzare il profitto, con l’obiettivo di pianificare i turni riducendo al minimo il costo del personale. Dopo il superlavoro da lockdown, arrivano le aperture prolungate sette giorni su sette fino alle 22, con la flessibilità estrema dei dipendenti dettata dall’algoritmo.
Gli applausi sembrano destinati a diventare un lontano, per quanto piacevole, ricordo.
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