di Franco Cavalli
Garcia Linera è uno dei rarissimi intellettuali marxisti contemporanei che in questi anni ha potuto e dovuto vivere quotidianamente la costante tensione tra teoria rivoluzionaria e prassi di governo.
Una prassi informata dalla teoria e viceversa. In questa antologia di suoi scritti e delle sue conferenze si presenta una testimonianza molto chiara di un impegno politico totalizzante.
A questo punto una piccola nota biografica si impone. Nato nella città andina di Cochabamba nel 1962, ha studiato matematica all’Università di Città del Messico, dove si è politicizzato incontrando numerosi militanti e rifugiati politici. In questo ambiente sviluppa una lettura del marxismo che integra l’importanza della questione indigena per i processi emancipatori e rivoluzionari dell’America Latina. Tornato in Brasile, dopo il fallimento di una prima esperienza politica, entra in clandestinità e nella lotta armata. Viene arrestato e incarcerato nonché torturato per cinque anni. Dopo la scarcerazione insegna sociologia in varie università boliviane e dal 2005 sino al novembre 2019 è vice-presidente della Bolivia, fin quando cioè assieme al Presidente Evo Morales dovrà rifugiarsi nell’esilio a seguito del golpe organizzato dalle destre, dai militari e da diverse compagnie transnazionali, interessate soprattutto all’enorme riserva di litio della Bolivia.
È molto difficile riassumere in poche righe questa ricca antologia, per quanto limitata ad un numero accettabile di pagine. Personalmente sottolineerei tre insegnamenti.
Il primo è un arricchimento dell’analisi marxista, nel senso che per Linera le attuali tendenze dello sviluppo capitalista fanno sì che, accanto alla classe operaia tradizionale, emerga anche un proletariato mondiale di tipo nuovo, che comprende da una parte i lavoratori delle nuove professioni legate alla conoscenza, e dall’altra quelli delle comunità pre-capitalistiche associate al processo di accumulazione capitalistico dei paesi periferici e semi-periferici. A proposito di quest’ultimo gruppo non si può non pensare all’ultimo Marx, che aveva rivalutato certe comunità pre-capitalistiche della Russia profonda come possibili agenti rivoluzionari.
Il secondo tema importante è il rapporto tra democrazia e socialismo, tema particolarmente ostico ed importante dove Linera ammette, con grande onestà intellettuale, che il problema di dare continuità a un processo rivoluzionario in condizioni di democrazia rappresentativa è un compito assai complicato, se non al limite dell’impossibilità. Le difficoltà qui insorgono soprattutto per la scarsa fedeltà dei ceti medi al blocco sociale rivoluzionario, anche quando questi ceti medi si sono formati di recente proprio grazie ai nuovi meccanismi economici introdotti dal movimento rivoluzionario. Ricordo che difatti sono stati una buona parte di questi ceti medi che hanno tradito non solo Morales, ma anche per esempio Chavez e Lula in Venezuela e Brasile. Ma l’altro aspetto forse ancora più importante di questa difficoltà risiede nella quasi impossibilità di cambiare la macchina statale, dominata da sempre da persone legate al pensiero delle classi dominanti. Una difficoltà che io stesso ho potuto osservare da vicino durante il primo periodo sandinista in Nicaragua.
Il terzo aspetto rilevante è la netta presa di distanza di Linera dall’ideologia anti-statalista. Secondo Linera, rinunciare alla lotta per il potere significa autocondannarsi all’irrilevanza politica, perché l’emancipazione passa necessariamente attraverso il controllo dello stato. L’idea che il mondo si possa cambiare “a partire da sé stessi” è secondo lui una pia illusione. Chiaramente per Linera il processo di costruzione del socialismo non può essere che una transizione di lungo periodo, di cui l’uscita dal neoliberismo rappresenta solo il primo passo. Egli descrive questa strategia con la formula “Gramsci-Lenin-Gramsci”, cioè vincere le elezioni dopo aver costruito l’egemonia sul piano del senso comune, in seguito sconfiggere il vecchio regime quando tenterà di restaurare il suo dominio, se necessario anche sul piano militare, e infine sviluppare nel blocco sociale il senso comune rivoluzionario.
Questi e molti altri aspetti del libro vengono brevemente ma chiaramente discussi nella postfazione di Carlo Formenti, il quale conclude con una durissima nota contro certe sinistre “radicali” guidate da visioni dogmatiche e settarie che hanno reso la vita difficile a Morales e Linera, a volte schierandosi apertamente a fianco delle opposizioni di destra in nome della “democrazia”. Fenonemo purtroppo non nuovo a cui si è già assistito in Brasile, Nicaragua e Venezuela, ma anche a Cuba (pensiamo alla durissima critica del Che ai trozkisti cubani). Al contempo, Formenti è molto critico con certe frange movimentiste della borghesia urbana, perse in questioni lontane anni luce dai bisogni delle classi subalterne e delle etnie indigene. Al riguardo, vale la pena citare la sua conclusione: “Mi limito a citare la vergognosa dichiarazione di alcune femministe boliviane, le quali, dopo il golpe fascista, hanno detto che quello fra Evo Morales e i militari era un combattimento fra galli macisti che non le riguardava. Questo mentre migliaia di donne indie, che manifestavano contro il golpe, venivano uccise, ferite e arrestate”.
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