di Luca Celada, corrispondente da Los Angeles
Mentre volge al termine il quadriennio presidenziale di Donald Trump, è lecito dire che i presupposti più nefasti della sua elezione si siano avverati.
La gestione nazional populista della vantata “maggiore democrazia”, ben oltre una semplice anomalia storica, si è rivelata una minaccia mortale per la sopravvivenza dell’“esperimento americano”.
Il paese è in ginocchio, sconquassato dalla pandemia e dilaniato dal conflitto sociale, sull’orlo di una potenziale storica catastrofe economica. Al funesto primato dei contagi si è accompagnata una disastrosa politica di serrate a singhiozzo e provvedimenti a macchia di leopardo, senza alcuna gestione centralizzata o unitaria. Era evidente dall’inizio che un sistema fondato su federalismo, governo minimo e privatizzazione, con una rete sociale stracciata da quarant’anni di deriva conservatrice e 30 milioni di persone senza assistenza medica pubblica, non sarebbe stato favorito nel far fronte ad una crisi di salute pubblica di dimensioni pandemiche. Eppure sarebbe stato difficile prevedere l’entità del disastro.
Il coronavirus ha esplicitato tutte le debolezze fisiologiche di un sistema fondato su individualismo, accumulazione capitalistica e darwinsmo sociale. La coincidenza con l’amministrazione Trump ha rimosso ogni residua cosmesi di un’ordinaria gestione liberale: il re è nudo e con lui la ferocia del sistema suprematista e finanziario che lo ha espresso. La rabbia e la divisione istigate senza sosta dal presidente per rinsaldare la propria base politica sono infine prevedibilmente debordate nelle strade. Un quadro che sigla, se ce ne fosse stato bisogno, l’epilogo del secolo americano.
Sulla spianata davanti alla Casa Bianca e sul selciato della 5th Avenue antistante Trump Tower, davanti alle principali residenze di Donald Trump cioè, campeggiano cubitali le scritte “Black Lives Matter”. Il presidente, ha precisato, le considera “un insulto”. E nessuno le ha dipinte lì in segno di elogio: sono l’immagine letterale dell’astio vivo che esiste fra cittadini e presidente. L’incitamento senza sosta del razzismo su cui Trump ha fondato la propria ascesa, e che già a metà mandato aveva portato alla rivolta nazista di Charlottesville, ha prodotto i suoi frutti velenosi in un paese che non è mai riuscito a completare un vero processo di riconciliazione dopo la guerra civile. In questi anni di sconsiderata esasperazione, si sono invece moltiplicati gli episodi di intolleranza, aggressioni a sfondo razzista, sparatorie in sinagoghe, omicidi veicolari motivati dall’odio ideologico. In molte città milizie di estrema destra hanno sfoggiato armi e veicoli militari, sventolando bandiere di Trump, incitate da siti complottisti o dai tweet che piovono senza sosta dallo studio ovale. Le ultime settimane hanno visto reparti di polizia segreta impegnata in rastrellamenti “cileni” nelle città di un paese in guerra con se stesso e con un presidente che fa le prove di regime autoritario. Il livello di paura, recriminazione e disgusto superano quelli dell’era Nixon e della guerra in Vietnam. E all’interno della Casa Bianca le epurazioni, il sospetto e la paranoia rammentano anche quelli i livelli nixoniani. L’America del 2020 è governata, per la prima volta nella sua storia, da una dinastia famigliare che occupa le cariche strategiche facendo sfoggio delle proprie ricchezze, mischiando disinvoltamente affari di stato e business famigliare fra magioni alabastrate, country club e auto blindate del governo. In una scia di selfie e post sui social da rich kids, il messaggio dei plutocrati della first family ad una nazione che rischia il collasso economico è un inequivocabile invito a mangiare brioche.
Gli Stati Uniti d’America si affacciano dunque alle 59me elezioni presidenziali della loro storia col cuore in gola e il fiato sospeso, un paese claudicante che arriva agli scrutini sfinito da una epidemia fuori controllo e da una profonda crisi d’identità. Invece della grandezza ritrovata vi sono ad oggi quasi 5 milioni di casi e 170.000 morti di Covid. E 30 milioni di disoccupati. Nelle prigioni sono pigiati due milioni di detenuti – un quarto del totale mondiale, per il tasso di carcerazione di gran lunga più alto del mondo. Attualmente comprendono 50.000 migranti circa, in un gulag in gran parte appaltato ad aziende di detenzione private, in cui languono anche 12.000 minorenni - molti separati a forza dai genitori. Un mastodontico Vallo di Adriano, o perlomeno le prime tratte di una futile barriera, sorgono sul confine meridionale del paese, monumento follemente costoso all’ossessione xenofoba. Ogni anno 36.000 Americani muoiono per ferite d’arma da fuoco, per mille circa di queste vittime a sparare è un poliziotto.
In questi termini l’era di Trump giunge ad un prevedibile apice. Come una scoria tossica introdotta nel corpo politico della nazione, l’attuale presidente diffonde dalla Casa bianca una metastasi velenosa di polemica e cattiverie. Un presidente in guerra con la stampa, la cultura e la scienza e coi propri cittadini che insulta, ricatta e minaccia in maniera inversamente proporzionale all’andamento del suo gradimento nei sondaggi. L’accelerazione degli ultimi quattro anni è stata vertiginosa ma anche parallela a fenomeni sincroni in diverse parti del mondo compresa la vecchia Europa. Una limpida dimostrazione dei teoremi di Hannah Arendt sulle derive autoritarie, filtrate attraverso la lente della distopia febbricitante di Philip K Dick e delle nuove tecnologie.
D’altra parte lo scontro frontale è quello che Trump vuole, il trumpismo ha bisogno di nutrirsi di conflitto permanente per alimentare la narrazione apocalittica che rinsalda i ranghi dei sostenitori. Non sorprende dunque che di fronte ad un sollevamento popolare e che il New York Times ha giudicato il più ampio della storia nazionale, Trump abbia scelto di raddoppiare la posta generando accuse di genocidio culturale contro Antifa e la “sinistra radicale”, accusando Biden di voler demolire i sobborghi bianchi, la Cina e l’OMS di tentare lo sterminio batteriologico degli Americani. Ha brandito la bibbia, stretto più forte fucili e bandiere. Come è stato segnalato, questa non è la strategia di chi cerchi di ampliare i consensi per vincere un elezione, ma l’azione di chi serra i ranghi e infiamma gli animi in previsione di una manovra volta a confutare gli scrutini. Trump, in svantaggio irrecuperabile nel voto popolare, conterà su un arsenale di “sporchi trucchi”, sulla soppressione del voto, la disinformazione a tappeto, sul maggioritario falsato del collegio elettorale per strappare forse una o due vittorie di misura in Stati cruciali. Soprattutto ha iniziato da mesi un azione capillare di delegittimazione preventiva del risultato, avviato il sabotaggio delle poste su cui ricadranno molte delle operazioni di voto, preparato cioè il terreno per non dover ammettere una eventuale sconfitta, facendo se necessario appello alle milizie infervorate che da mesi sono in rodaggio. Non c’è nulla, ahimè, nei concitati quattro anni che l’America ha appena attraversato che possa rassicurare sull’eventualità – perfino la probabilità di una crisi costituzionale provocata ad arte il 4 novembre.
Allo stesso tempo il movimento Black Lives Matter ha messo in campo forze sociali fautrici di un progressismo ed un ricambio sociale forse senza precedenti, una risposta propositiva e rivoluzionaria al nazional populismo, al “supercapitalismo” (per usare il termine coniato da Mike Davis), la cui oppressione è in qualche modo stata simbolicamente cristallizzata dalla crisi pandemica. Anche la contingenza politica ed economica, l’incognita di un mondo del lavoro reso irriconoscibile da distanziamento, gig economy, automazione e piattaforme digitali toglie il respiro. Il movimento BLM nasce dalla necessità di affrontare una volta per tutte le perniciose contraddizione del paese, dei suoi peccati originali. Il razzismo legato al retaggio di pulizia etnica e schiavitù che sottendono molta parte dello sviluppo nazionale. Il movimento chiede di ricucire il discorso mai finito sui rapporti fra le razze che ricorre nella traiettoria nazionale in cicli di conflitto e rimozione. Ma da questo punto di partenza il movimento è giunto a riconoscere che non può esserci giustizia sociale senza giustizia economica ed ambientale. Che non ci si può sottrarre oltre ad affrontare in modo deciso e propositivo l’insostenibile diseguaglianza, la crisi dei rapporti, di produzione e consumo che presi assieme costituiscono, ormai è sempre più chiaro, una sfida ed una minaccia esistenziale per il pianeta. “Quello che entusiasma di questo momento”, ha affermato Angela Davis, “è il numero di persone che hanno adottato una visione progressista della storia. Una congiuntura che sprona la prospettiva di un cambiamento radicale.”
Con l’istinto di un palazzinaro bancarottiere, Trump ha dirottato la narrazione nazionale sui binari morti del pregiudizio e dell’oscurantismo, del sovranismo e del suprematismo. Una sbandata epocale dal “lungo arco morale” di Martin Luther King, quello della storia che “s’incurva tuttavia verso la giustizia”. King aveva capito che i tratti di alcuni fondamentali flagelli americani, razzismo, diseguaglianza, violenza ed imperialismo, erano inestricabilmente legati. Il suo lavoro negli ultimi anni, prima di venire stroncato, era stato proprio il tentativo di collegarli in una lotta intersezionale (volendo ricorrere ad un termine in voga oggi).
Tutto questo è la posta in gioco il 3 novembre, per l’America e per il mondo. Una prova decisiva a livello planetario. La sconfitta di Donald Trump – e dovrà essere un plebiscito per riuscire a scalzarlo – è un atto di sopravvivenza. Solo dopo potrà cominciare il lavoro – immane – per immaginare un mondo migliore. In caso contrario molto probabilmente sarà troppo tardi.
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