di Dick Marty
“Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
Questi nobili principi sono contenuti nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America adottata il 4 luglio 1776.
Parole scritte di proprio pugno da Thomas Jefferson, purtroppo mai veramente messe in pratica. Lo stesso Jefferson si oppose strenuamente all’abolizione della schiavitù e fino alla sua morte rifiutò di liberare i suoi oltre duecento schiavi che tanto contribuirono all’edificazione del suo ragguardevole patrimonio. Ciò non gli impedì di diventare il terzo presidente degli Stati Uniti e di essere oggi ancora celebrato come uno dei padri della nazione. Proprio durante il suo mandato presidenziale, Haiti proclamò la sua indipendenza e liberò tutti gli schiavi, diventando la prima repubblica nera indipendente. Le grandi potenze considerarono questi gesti come un atto insolente e inaccettabile di ribellione contro l’ordine mondiale da loro imposto. La giovane repubblica fu sottoposta a un feroce boicotto e l’eroe della sua liberazione lasciato morire di fame e di freddo in una fortezza nei pressi del confine svizzero con il Giura. Negli Stati Uniti la schiavitù fu abolita solo nel 1865. Non per questo la situazione dei Neri migliorò di molto. Per tanto tempo rimasero ancora cittadini di seconda classe, addirittura senza diritto di voto. Una segregazione che durò a lungo – ricordiamo l’arresto di Rosa Parks perché seduta in un autobus nei posti riservati ai Bianchi – e che dura fino ai nostri giorni come lo dimostrano gli abusi e i crimini impuniti degli agenti di polizia contro cittadini neri.
Ho accennato a questi fatti storici perché quanto capita oggi altro non è che una tragica prosecuzione di rapporti di forza che si fondano sul disprezzo altrui e sulla sopraffazione. Certo, la schiavitù è formalmente scomparsa (non ovunque, invero), ma lo sfruttamento dell’essere umano continua, forse con forme meno brutali ma altrettanto umilianti e con modalità più raffinate ma sempre perverse. Come altrimenti definire, ad esempio, il lavoro imposto a dei bambini in miniere d’oro in condizioni miserabili e a stretto contatto con sostanze altamente pericolose come il mercurio? Oro, che in maggior parte viene poi ad alimentare le raffinerie della ricca e civilissima Svizzera.
Ma non occorre nemmeno andare tanto lontano. Il Coronavirus ha rivelato impressionanti situazioni di abusi anche nei paesi più ricchi e socialmente avanzati. In Gran Bretagna si è così scoperto che migliaia di persone lavoravano illegalmente per una grande industria tessile con uno stipendio di 3,5 sterline all’ora (3.86 euro) senza alcuna protezione sociale e in condizioni di promiscuità che hanno fatto letteralmente esplodere l’epidemia. In parecchie città svizzere abbiamo assistito all’avvilente spettacolo di lunghe file di persone che talvolta per ore attendevano la distribuzione di sacchetti con derrate alimentari organizzata da associazioni caritatevoli: a seguito della pandemia questi poveracci erano stati abbandonati dai loro datori di lavoro che li impiegavano in modo illegale e si trovavano così senza mezzi e senza alcuna rete di protezione.
Da noi e in Gran Bretagna esistono sindacati, tribunali nonché una stampa libera ed è lecito pensare che tali situazioni costituiscano l’eccezione. Ma nei paesi fragili, in preda alla violenza, con uno Stato corrotto e non in grado di proteggere i propri cittadini, proprio in quelle regioni le cui risorse del sottosuolo alimentano la nostra ricchezza e paradossalmente decretano la miseria delle popolazioni locali, cosa succede? La globalizzazione ha drammaticamente accentuato la discrepanza tra realtà economica e ordinamento giuridico. L’economia è diventata prettamente internazionale mentre le leggi sono rimaste sostanzialmente nazionali. Una dinamica che progressivamente indebolisce gli Stati e accresce il potere delle grandi società multinazionali. Queste ultime, originariamente molto legate alla realtà del territorio con un management e un azionariato nazionale, sono ora diventate delle entità internazionali spesso con disponibilità finanziarie e una capacità di condizionamento della politica e dell’opinione pubblica che le rendono più potenti della maggior parte degli Stati del mondo. Non di rado sono controllate da influenti fondi speculativi il cui primo scopo è la massimizzazione dei profitti. Non è pertanto sorprendente se assistiamo al moltiplicarsi di scandali per violazioni dei diritti fondamentali delle popolazioni locali e per gravi danni all’ambiente causati da tali multinazionali attive in paesi poveri ma ricchi di materie preziose e le cui istituzioni sono asservite ai potenti interessi stranieri.
Cosa vuole l’iniziativa per delle multinazionali responsabili?
Semplicemente l’attuazione di un principio elementare che è premessa di qualsiasi convivenza civile: ognuno è chiamato a rispondere delle proprie azioni. Chi si ritiene danneggiato nei propri diritti fondamentali o da una violazione grave delle norme ambientali internazionalmente riconosciute potrà inoltrare un’azione di risarcimento dinanzi ai tribunali svizzeri se tali atti sono addebitati a società con sede nel nostro paese. Una procedura legale in responsabilità civile non propriamente facile: spetta infatti al danneggiato provare il danno, la mancata diligenza da parte dell’impresa nonché il nesso di causalità tra la negligenza e il danno. Difficile e costoso ed è pertanto falso affermare che assisteremmo a una valanga di azioni giudiziarie. L’esistenza stessa di una tale norma è tuttavia atta a svolgere un’importante funzione di prevenzione. Una legislazione analoga è peraltro già in vigore in Francia.
Il Consiglio federale riconosce l’esistenza di un problema di possibili abusi da parte delle multinazionali in paesi particolarmente fragili, ma la sua soluzione consiste nel dire che spetta alle imprese stesse autoregolarsi. Il parlamento, dopo tre anni di dibattiti, oppone un contro-progetto che consiste unicamente in un resoconto annuo dell’azienda stessa su quanto mette in atto per prevenire la violazione dei diritti dell’uomo. Semplicemente ridicolo: l’azienda può scrivere quello che vuole dato che non è previsto alcun meccanismo di controllo. Peraltro, il Consiglio federale e la maggioranza del parlamento sembrano aver dimenticato l’esperienza calamitosa dell’autoregolamentazione in materia finanziaria, in particolare di riciclaggio di denaro: la convenzione di diligenza fu rispettata dalla maggioranza, certo, ma i filibustieri se ne infischiarono impunemente con tutta una serie di scandali che offuscarono l’immagine della Svizzera nel mondo.
Altro rilievo: aziende con sede in Svizzera hanno pagato e continuano a pagare multe per parecchi miliardi alle autorità americane, dell’Unione europea e di altri grandi paesi per inosservanza di varie norme di quei paesi. Non vogliono, però, rispondere delle loro azioni e dei danni causati nei paesi più poveri, peraltro con la garanzia di farlo dinanzi a tribunali svizzeri! La spiegazione è semplice: per loro vale solo la legge della giungla, la legge del più forte. Molte aziende svizzere hanno capito che è nel loro interesse assumere un atteggiamento responsabile. Peccato che molte di queste, troppe, siano rimaste in silenzio, lasciando il campo a società come Glencore e ai devoti funzionari di Economiesuisse, anche se occorre sottolineare che sono pure stati costituiti un comitato “borghese” e uno di imprenditori a sostegno dell’iniziativa.
La votazione del 29 novembre sarà anche e soprattutto una scelta di società
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