Cultura Sindacale, ti cerco ma non ti trovo...

di Bruno Brughera

 

È assai palese a tutti che in Ticino sono veramente pochi i settori che possono vantare una seppur minima cultura sindacale. 

L’esempio più recente e che - con un certo peso - ha lasciato un segno toccando direttamente l’opinione pubblica, è senz’altro la lotta degli operai delle Officine a Bellinzona. 

 

Il cantone Ticino non ha mai avuto un settore tale da raggruppare forze per la difesa dei diritti dei lavoratori come il comparto FFS o l’edilizia.

 

Non sono uno storico per esporre e analizzare le varie piccole azioni che qua e là hanno segnato lotte di lavoratori, di cittadini che si sono raggruppati ed organizzati. Non è neppure mia intenzione esporre la storia del sindacalismo ticinese che, in passato, in particolar modo tra gli anni Sessanta e Ottanta, ha beneficiato del contributo di grandi personaggi capaci di apportare notevoli contributi intellettuali assieme alle forze progressiste smuovendo l’iniqua e castrante pace del lavoro. Piuttosto mi preme riflettere sui vuoti e la mancanza di cultura sindacale che ci affligge oggigiorno; sempre che se ne possa parlare e che si possa definire tale.

 

Non so nemmeno se esista davvero un problema, ma la sensazione è quella che molti stipendiati si siano seduti “sugli allori” grazie a quei periodi economici assai favorevoli, conducendomi a pensare che vi sia una sorta di “corto circuito”.

 

Ho ben in mente i numeri di votanti che gonfiavano l’allora partitone e il PPD: centri urbani come Lugano vivevano un gran fervore di attività economiche a cavallo del boom finanziario. Molti miei coetanei si sono accasati in banca e poi in fiduciarie certi che avrebbero ottenuto dei trattamenti salariali favorevoli. Questa tendenza ha contribuito ad allontanare il devoto elettorato benestante dalla possibilità di essere rappresentati dai sindacati. I benefici aggiunti hanno contribuito inoltre al benessere della classe dei colletti bianchi: da alcuni anni questi lavoratori del settore bancario si stanno accorgendo dell’errore e ne stanno pagando le conseguenze.

 

Snobbare concetti e ideali quali la solidarietà e la partecipazione, porta a un identificazione personale che si tramuta in individualismo. Nella società odierna è proprio uno dei fattori principali del perché non si riesca ad invertire la tendenza per cui ci siano così tante divisioni e grandi differenze nel mondo del lavoro. Orbene, anche in altri settori, quali quelli statali e parastatali, possiamo riscontrarne un progressivo disinteresse e indebolimento dei sindacati.

 

La questione del disinteresse e di un forte senso individualista tra operatori, docenti, dipendenti dello stato e del servizio pubblico, è a mio avviso un problema che a lungo andare squalifica quei sindacati preposti alla difesa dei dipendenti statali e parastatali che, sommati, fanno del cantone il più grande datore di lavoro. Ma questo problema come lo si può risolvere? È responsabilità dei sindacati non essere riusciti a creare una base unita e convinta, oppure il problema sono i lavoratori chiusi nei propri “orticelli”?

 

Prendendo ad esempio i soli docenti e tutti gli operatori in campo sociale - dove risiede l’inghippo per cui questi lavoratori più volte hanno dimostrato il loro disinteresse per problemi collettivi e di pianificazione?

Credo che all’interno degli istituti - scolastici e sociali- con gli anni si sia disincentivato la possibilità di parlare di problematiche sindacali. Le commissioni del personale hanno di fatto perso d’importanza. Gli stessi sindacati non hanno saputo coltivare una cultura dei diritti e doveri, non hanno colto la necessità di ascoltare e stimolare i bisogni dei lavoratori.

 

Chiusi per lo più nei loro uffici, i funzionari sindacali si sono autoesclusi dalle varie realtà e necessità! Ricordo ancora con quanta veemenza e mancanza di lungimiranza la VPOD ha osteggiato la nascente associazione per operatori sociali: “siamo contrari a corporazioni”, mi dissero, ma in verità volevano l’assoluto controllo quando, noi operatori, volevamo far crescer un’identità professionale e un senso responsabile, come pure creare un humus fertile a favore di una cultura sindacale che potesse contrapporsi alle visioni ottuse e mirate di risparmio per i consigli di amministrazione e del dipartimento socialità e sanità. Piccoli problemi apparentemente di pochi individui che gradualmente sono diventati più grandi e coinvolgono un maggior numero di persone. Faccio un esempio molto ricorrente giusto per contestualizzare la dinamica: è prassi consolidata che il singolo di fronte a problemi di carattere amministrativo e organizzativo, oppure con colleghi e superiori, preferisca mettersi in malattia. È un modo per fuggire e risolvere solo in parte il problema magari anche per un limitato periodo per poi ricadere nella stessa problematica. Ma continuare a cercare di risolvere e agire individualmente con escamotage fini a sé stessi, a lungo andare non aiuterà e ancor peggio, appiattirà ancor più quelle poche coscienze rimaste attive.

 

È indubbio che buona parte di questa crisi di appartenenza presente sia dovuta a scelte e individui che hanno caratterizzato e gestito i sindacati in questione.

 

Si dice che la politica debba restare fuori un po’ da tutto, sicuramente dalla scuola. Ma non credo che affrontare problematiche, quesiti, argomenti della società, della quotidianità non sia in qualche modo fare o parlare di politica. E allora perché è così difficile toccare il tema del sindacalismo? Perché molta gente repudia e resta distaccata da queste tematiche? È un problema di appartenenza, di identità? Che sia menefreghismo accentuato da logiche egoistiche a far sì che l’importante sia avere “i propri piedi al caldo” a discapito dell’altro? Eppure i risultati sono sotto l’occhio di tutti, non c’è quasi bisogno di elencare il problema di dumping, del salario minimo, della riforma della scuola o delle politiche sociali che appaiono sui titoli ma sono privi di qualsiasi sostanza.

 

L’offensiva del padronato contro il salario minimo e i contratti collettivi rafforza la visione di quei partiti che a maggioranza condizionano il parlamento e il consiglio di stato.

 

È una crisi identitaria che non trova soluzioni di sorta in quanto da anni vediamo i sindacati - vpod e ocst - ma forse non solo loro, molto passivi e quasi inermi di fronte ai continui tentativi di minare i diritti dei lavoratori/stipendiati che, d’altra parte, sono preoccupati solo di mantenere un posto di lavoro a discapito di un’idea collettiva volta a far rispettare quei diritti acquisiti nel corso di trattazioni ragionate e fortemente difese con cognizione di causa. Da anni cerco segnali di ripresa e presa di coscienza, ma purtroppo non incontro persone che abbiano una coscienza collettiva, che abbiano voglia di mettersi in gioco e magari diventare militanti capaci di influenzare e incentivare colleghi a spronare i sindacati a riprendere in mano le sorti di molti lavoratori e stipendiati. Ci sarà ancora la speranza per una svolta?