di Franco Cavalli
Piccola storia del rossobrunismo in Europa - Il termine “nazionalbolscevismo” è ultimamente ritornato d’attualità in quanto diversi gruppi irregolari che combattono contro le milizie ucraine nel Donbass si riferiscono a questo filone storico.
Molti lettori hanno però scoperto questo termine grazie al romanzo Limonov di Emmanuel Carrère, che una decina di anni fa ha avuto un grosso successo editoriale. Il prolifico autore francese si riferiva al Partito Nazional-Bolscevico russo, nato nel 1993 e tra i cui protagonisti ci furono soprattutto Eduard Limonov e Aleksandr Dugin, quest’ultimo conosciuto anche alle nostre latitudini per alcune sue incursioni “filosofiche” a Lugano.
Proprio a causa di queste impronte rossobrune che ritroviamo anche in Ticino ho voluto leggere il libro che vi ha dedicato David Bernardini, che collabora con il Dipartimento di studi storici dell’Università degli Studi di Milano e che fa parte della redazione della “Rivista storica del socialismo”. Da diversi anni egli si dedica a studiare questo filone, soprattutto per il ruolo importante che ha avuto durante la Repubblica di Weimar, non da ultimo preparando, direttamente o indirettamente, il terreno per l’affermazione dei nazionalsocialisti. Con il termine “nazionalbolscevismo” ci si riferisce difatti ad una corrente politica, non sempre ben definibile, che ha avuto origine nel 1919-1920 in Germania. A promuovere questo concetto furono inizialmente due dirigenti socialdemocratici, H. Laufenberg e F. Wolffheim, che a causa della crisi economica provocata in Germania dalle durissime condizioni economiche imposte dal Trattato di Versailles proposero di riaprire il conflitto, allineandosi addirittura con la Russia bolscevica contro quello che loro definivano il nemico comune, cioè il capitalismo internazionale, accusato di voler schiavizzare i popoli e soprattutto i lavoratori tedeschi.
Da qui nasce il nucleo centrale di tutto questo movimento che vuole sfruttare la combattività della classe operaia, convincendola però a far propria l’idea nazionale e quindi trasformando lo scontro tra classi in una guerra tra nazioni. È questo fra l’altro un tema che ritroviamo ancora oggi nella propaganda di molti gruppi xenofobi di destra e di estrema destra in Europa, dove al capitalismo generico si è sostituito il globalismo che vuole cancellare completamente le identità nazionali. Le posizioni dei primi leader nazionalboscevici furono duramente condannate dallo stesso Lenin, che in Estremismo malattia infantile del comunismo le bollò come “madornali assurdità”.
Tra il 1920 ed il 1933, data dell’ascesa al potere di Hitler, in Germania fu tutto un fiorire di un gran numero di riviste, quotidiani, circoli di discussione e movimenti improntati a questa visione del mondo, che vedendo sempre di più il nemico negli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna – paesi che avevano imposto il Trattato di Versailles – a più riprese si avvicinarono all’Unione Sovietica ed in particolare a Stalin, di cui ammiravano molto il “comunismo austero e primitivo”, secondo loro in netto contrasto con le posizioni invece “troppo intellettuali di altri dirigenti come Lenin e Trotskij”. Nei loro programmi ritornava quindi molto spesso anche la richiesta di un’economia pianificata al servizio di uno stato forte, in grado quindi di far fronte alla “plutocrazia anglosassone”.
I rossobruni germanici furono sempre acerrimi nemici della socialdemocrazia tedesca, ritenuta troppo legata al pensiero occidentale e all’illuminismo francese, ma tentarono più volte di avvicinarsi al Partito Comunista tedesco, una parte del quale ebbe la tentazione di utilizzare l’influenza che questa visione panteistica ed oscurantista aveva tra le masse contadine per cercare di attirarle verso la sinistra radicale. I nazionalbolscevici, invece, da come si deduce da tutta un’ampia letteratura citata da Bernardini, volevano sfruttare la forte combattività delle masse popolari comuniste per rovesciare la Repubblica di Weimar, dicendosi però sicuri che già il giorno dopo la vittoria queste masse sarebbero passate al nazionalbolscevismo e alla difesa degli interessi del popolo tedesco, perché anche loro legate agli istinti primordiali del mondo teutonico.
È interessante notare che questi nazionalbolscevici furono antifascisti, in quanto l’Italia aveva sostenuto gli accordi di Versailles. Inoltre la maggior parte dei leader di questo filone furono anche a lungo oppositori di Hitler, ritenendolo un “demagogo” stupido ed osteggiandolo anche e soprattutto perché egli da sempre aveva dichiarato che il nemico principale a livello geopolitico era l’Unione Sovietica. Subito dopo essere asceso al potere grazie all’appoggio del grande capitale (mancato invece ai nazionalbolscevici), Hitler incarcerò alcuni dei leader rossobruni, mentre la maggior parte dei sostenitori di questo pensiero si squagliò o aderì al movimento nazista.
I movimenti di ispirazione nazionalbolscevica rinacquero dopo il secondo dopoguerra, dando vita ad esperienze come quella di Jeune Europe, fautore di un socialismo antimarxista e la più importante tra le “internazionali nere” di quegli anni, movimento nato con i finanziamenti dei monopoli industriali e commerciali belgi che sfruttavano il Congo e si opponevano alla decolonizzazione. In Italia uno dei movimenti principali fu Lotta di popolo, i cui aderenti furono bollati come “nazimaoisti”, una formazione di natura molto incerta, composta da figure che poi risulteranno legate a Gladio e ai servizi segreti.
Come sottolinea Bernardini, poco è cambiato dalle origini, con schemi e visioni che continuano a ripetersi. Si rimane nel campo delle destre radicali che ogni tanto fanno “ricorso alla fraseologia di sinistra”, sottolineando sempre che la nazione deve prendere il posto della classe, che la società dovrà costituirsi gerarchicamente sotto la guida di una élite, e che il socialismo dovrà mantenere l’ordine sociale ed abbandonare completamente il marxismo. Molto spesso nella fraseologia di questi gruppi ritorna il termine “rivoluzione” e sempre essi si sono considerati rivoluzionari che vogliono cambiare l’ordine costituito, di cui si sentono vittime. Vale allora la pena ricordare che anche nel recente numero speciale del giornale elettorale dell’UDC per l’iniziativa per la disdetta si diceva spesso che era ora di “fare una rivoluzione”. Un affermazione ribadita anche dall’attuale Presidente del Consiglio di Stato ticinese.
Tratto da: