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PIAZZA APERTA - Giulia Petralli*

La votazione sul divieto di dissimulare il volto sta legittimando alcune persone a imbracarsi in una moderna crociata per la liberazione delle donne e la civilizzazione dei loro presunti oppressori.

 

Ma la battaglia ideologica che si sta facendo sul corpo delle donne (islamiche e non) nasconde altri fini.

 

Da una parte, il bisogno di riempire il vuoto lasciato dalla poca volontà di affrontare le complessità dalla globalizzazione e dalle migrazioni. Dall'altro, la tanta volontà di fare guerra all’islam. In questo quadro, le donne islamiche sono schiacciate fra due sistemi patriarcali che le utilizzano ognuno a proprio piacimento. È evidente che la loro libertà, i loro corpi e la loro emancipazione nulla c’entrano, ma diventano un palese capro espiatorio; il problema e la soluzione della “(non)-integrazione”.

 

Però, penso (spero) - ma in realtà dubito - che la votazione possa essere l’occasione per sradicare (almeno in parte) gli stereotipi che caratterizzano la nostra forte (e ipocrita) volontà di imbarcarci come missionari emancipatori. Partirei proprio dal comprendere come il velo integrale possa essere una scelta libera, soprattutto in Europa (diverso il discorso per altre realtà!).

 

A questo proposito è illuminante la ricerca condotta dalla sociologa Agnès De Féo, che ha intervistato circa 200 donne indossatrici del velo integrale in Francia.

 

Di queste, quasi tutte erano nate in Francia e quasi tutte avevano frequentato scuole pubbliche. Molte di loro hanno scelto il velo integrale scontrandosi con la propria famiglia e i propri mariti. Molte hanno scelto di indossarlo come forma di anticonformismo e atto sovversivo (soprattutto dopo l’entrata in vigore della legge francese sul divieto di dissimulare il volto), alcune per liberarsi di un modello di bellezza che le opprimeva. Altre lo hanno scelto dopo aver subito delle violenze sessuali, come forma di autoprotezione contro la poca tutela del governo. Poche si sono avvicinate anche ai testi religiosi islamici o hanno appreso l’arabo. Molte hanno rivelato l’effettiva esistenza di un rapporto di potere attorno al velo integrale, ma non era quello degli uomini sulle donne, bensì quello delle donne sugli uomini. Alcune hanno poi abbandonato il velo, chi per mancanza di vitamina D, chi per aver trovato la propria espressività altrove. Altre si sono estremizzate (anche come conseguenza del rifiuto occidentale di accogliere un’identità diversa). Altre lo portano ancora, un mese sì e una settimana no.

 

Certo, il velo integrale non è il simbolo della libertà (cosa lo è? Chi lo è?), ma a volte lo è di una scelta. Il fatto di non riconoscerlo evidenzia che chi grida “donne, io vi salverò!” non ha mai chiesto loro come la pensassero. La falsa pretesa di emancipare le donne indossatrici del velo integrale in Svizzera (così come in Francia) nulla ha a che fare con la loro vera liberazione. A loro volta, le donne che potrebbero essere effettivamente costrette a indossare il velo integrale non beneficeranno in alcun modo del divieto, poiché sarebbero doppiamente isolate. È sbagliato affrontare una presunta forza con un'altra. Implementare il divieto non ci rende migliori dei presunti oppressori islamici, bensì al loro pari. E per cosa? Per l’ennesimo tentativo populista di dividere le culture e le identità. Un risultato affermativo alla votazione non sarà da leggersi come un salvagente per le donne (sono altre le misure da promuovere), ma come l’ennesima ostilità alla comunità musulmana.

 

 

 

 

* Giulia Petralli

Co-coordinatrice delle Giovani verdi