di Franco Cavalli
Marco D’Eramo si è dapprima laureato in fisica e ha poi studiato sociologia con Pierre Bourdieu a Parigi. Giornalista, ha collaborato e collabora con molte testate (tra cui il Manifesto), in Italia e all’estero, soprattutto ma non solo nei paesi anglosassoni.
D’Eramo è un fine intellettuale, che sa analizzare i mutamenti nella società con l’obiettività di chi si è formato nelle scienze naturali. La sua caratteristica, ed in questo assomiglia un po’ a Noam Chomsky (anch’egli formatosi nelle scienze esatte), è quella di saper discutere in modo chiaro e facilmente comprensibile anche i problemi più complessi, basandosi sempre su una documentazione esaustiva ed inoppugnabile.
In questo libro, che raccomando vivamente a tutti, D’Eramo si pone una domanda fondamentale: come mai dopo che negli anni ‘68-‘70 una rivoluzione in senso socialista nei paesi occidentali sembrava almeno pensabile, siamo poi arrivati nei decenni seguenti al dominio di una forma estrema del capitalismo, cioè il neoliberismo? Spesso noi tendiamo ad attribuire questo capovolgimento – oltre che alla scomparsa dell’Unione Sovietica – a dei “mega trend” come la globalizzazione, la nuova rivoluzione industriale, la digitalizzazione e così via. Ben diversa è invece l’interpretazione dell’autore, e cito qui un paragrafo tratto dall’introduzione: “La tesi che voglio dimostrare è appunto che negli ultimi 50 anni è stata portata a termine una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i sudditi, dei dominanti contro i dominati. Una rivoluzione che è avvenuta senza che ce ne accorgessimo, una rivoluzione invisibile”. Gli unici a ben saperlo sono quei molti miliardari che hanno finanziato lautamente questa guerra. D’Eramo ricorda come già nel 2006 Buffett Warren, uno degli uomini più ricchi del mondo, lo avesse ammesso in un’intervista, nella quale aveva affermato: “certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo”. E cinque anni dopo lo stesso Buffett riaffermava il concetto, modificandolo però leggermente, aggiungendo che la guerra “l’avevamo già vinta”.
Visto che oggigiorno è di moda ogni sorta di complottismo, qualcuno potrebbe pensare che magari anche D’Eramo esageri un pochettino. Invece ogni lettore serio, che sappia valutare l’immensa documentazione messa a disposizione e ben riassunta dall’autore, non potrà avere il benché minimo dubbio a proposito della assoluta veridicità e plausibilità della sua tesi. Egli ci accompagna, prendendoci quasi per mano, dall’inizio di questa controrivoluzione negli anni ‘70 fino alle vittorie di Thatcher e di Reagan (che ne furono l’espressione a livello politico), per arrivare a tutto quanto stiamo vivendo oggigiorno. In estrema sintesi: di fronte alla sconfitta in Vietnam, alle rivolte degli afro-americani e al predominio di tendenze politiche di sinistra negli atenei nord americani, dapprima alcuni miliardari del Midwest (la regione più reazionaria degli Stati Uniti), seguiti poi da tutta una serie d’altri multimilionari, decisero che era assolutamente necessario “rovesciare il banco” a breve scadenza. Aiutati da una serie di intellettuali reazionari, che avevano però per esempio studiato a fondo Gramsci, si convinsero che bisognava avantutto riconquistare l’egemonia intellettuale e culturale.
D’Eramo presenta tutta una serie di documenti molto espliciti, da cui si deduce che a suon di miliardi fu stabilita così una chiara strategia che consisteva in un piano a tre fasi. Dapprima bisognava creare delle teste di ponte nelle più prestigiose università americane, finanziando lautamente una serie di cattedre “reazionarie” nelle facoltà umanistiche. In seguito fu creato un numero impressionante di ricchissime fondazioni, il cui scopo era quello di tradurre la produzione teorica degli universitari in proposte pratiche e narrazioni concrete utilizzabili a livello socio-politico. Nella terza fase si trattava poi di trasmettere questi messaggi attraverso tutti i canali immaginabili e possibili: dai vecchi e nuovi mass media ad ogni genere di organizzazione civile e religiosa.
Uno degli assi portanti di questa guerra fu il mantra della riduzione delle tasse: non tanto perché questi miliardari ne avessero veramente bisogno, ma piuttosto perché serviva a “prendere la belva per fame”, riducendo le tasse e costringendo lo Stato a ridurre i servizi o ad indebitarsi ulteriormente. Lo sostenne esplicitamente già nel 1978 Alan Greenspan, che dal 1987 al 2006 sarebbe poi stato presidente della Federal Reserve: “Ricordiamoci che l’obiettivo principale di ogni programma di riduzione delle tasse è di ridurre la spinta alla crescita della spesa riducendo la quantità di risorse disponibili”.
È chiaramente impossibile riassumere qui tutta l’ampia documentazione presentata con esemplare chiarezza da D’Eramo. Egli dimostra come questa rivolta dall’alto contro il basso abbia investito tutti i terreni, non solo l’economia ed il lavoro, ma anche la giustizia e l’istruzione: ha addirittura stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi. Basti pensare che in contrasto con il liberalismo storico, il neoliberismo ha sempre sostenuto tutte le peggiori dittature (a cominciare da quella per loro esemplare di Pinochet) e ha addirittura definito come concetto centrale attorno a cui deve ruotare tutta la società (compresi i comportamenti individuali) non tanto il mercato, ma avantutto la concorrenza.
La vittoria neoliberista è culturalmente così dominante che oggi termini come “capitalisti” o “sfruttamento” sono diventate quasi delle parolacce. D’Eramo dice addirittura: “oggi ci è più facile pensare alla fine del mondo che alla fine del capitalismo”. Egli conclude però dicendo che forse è arrivato il momento di provare a fare lo stesso, imparando dagli avversari. Ciò sarà molto difficile e il lavoro che ci aspetta è immenso e non lo nasconde. Egli conclude però ricordando come “nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto, proprio come noi ora”.
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