di Fabrizio Tonello*
Sembrava una storia inverosimile, una delle trentamila (trentamila!) bugie di Trump durante il suo mandato e, invece, a sorpresa, Joe Biden ha dato ordine di indagare se davvero il Covid-19 potrebbe essere un virus creato in un laboratorio cinese e non un caso di zoonosi, cioè di passaggio di un virus dall’animale all’uomo.
Non sappiamo quali siano i risultati dell’indagine, se mai ci saranno, ma possiamo già constatare che, da quando il presidente democratico ha dato credito all’ipotesi, a Washington si respira un clima un po’ da guerra fredda.
Non è da oggi che i politici statunitensi stanno discutendo su come affrontare la Cina, anzi. Alcuni politici e studiosi già dieci anni fa parlavano della «trappola di Tucidide», ovvero del confronto tra una potenza in ascesa e una in declino: il timore di quest’ultima di non poter mantenere il proprio ruolo dominante potrebbe sfociare in una guerra rovinosa, come quella tra Sparta e Atene 2500 anni fa.
Studiosi come Grahan Allison sottolineano il fatto che nel XX secolo, le potenze emergenti Germania e Giappone sono state la causa di due devastanti guerre mondiali nel loro tentativo di scalzare la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi dal loro piedestallo. La Cina e l’America sarebbero destinate a diventare nemiche nel XXI secolo, fino a rischiare uno scontro militare? Inevitabilmente, man mano che la Cina sale nella scala economica e tecnologica, diventerà un concorrente più temibile per gli Stati Uniti ed espanderà la sua influenza globale. Il pericolo più grave è che con l’aumento del potere della Cina, gli Stati Uniti gestiscano male, in modo deliberatamente ostile, questa situazione.
Poche settimane fa, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer ha scritto: «L’idea di una seconda guerra fredda tra l’Occidente e la Cina si è rapidamente evoluta da un’analogia fuorviante a una profezia che si autoavvera. Ma la Cina contemporanea non è affatto come l’Unione Sovietica e, nel mondo di oggi, semplicemente non possiamo permetterci un altro scontro tra sistemi politici reciprocamente esclusivi». Sembra semplice buon senso, tanto più alla luce della pandemia, ma sia a Washington che a Pechino ci sono forze che lavorano per trasformare la cooperazione attuale in uno scontro: magari non militare ma certamente un confronto duro. Da questo punto di vista è probabile che la politica di Joe Biden sia più di continuità che di rottura con quella di Donald Trump.
La Cina è ora il più grande partner commerciale di molti paesi, più di quanto lo siano gli Stati Uniti, e per l’America cercare di limitare fortemente il commercio con la Cina sarebbe troppo costoso (Trump si guardò bene dal farlo, in realtà). Le esportazioni cinesi sono aumentate del 20,8% a luglio rispetto al 2020, dopo lo spettacolare balzo in avanti del 32,2% in giugno rispetto allo stesso mese del 2020. Quindi il costo di una guerra commerciale tra i due paesi sarebbe ben diverso rispetto a quello della lunga guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che avevano un commercio bilaterale molto modesto e ancor meno contatti sociali: oggi l’America e i suoi alleati non solo hanno trasformato la Cina nella «fabbrica del mondo» ma ogni anno ammettono diverse centinaia di migliaia di studenti cinesi nelle loro università. Il presidente cinese Xi Jinping non è Stalin e il sistema cinese potrebbe essere definito un «leninismo di mercato», cioè una forma di capitalismo di stato basato su un mix di imprese pubbliche e private controllate da un’autoritaria élite di partito.
Non solo: se anche diminuire l’interdipendenza economica fosse possibile, la pandemia dimostra che l’interdipendenza ecologica non solo esiste ma obbedisce alle leggi della biologia e della fisica, non a quelle della politica. Nessun paese può affrontare il cambiamento climatico o le pandemie da solo e affrontare questi problemi globali richiederà agli Stati Uniti di cooperare con la Cina nello stesso momento in cui pattuglia con la sua marina il Mar Cinese Meridionale per difendere la libertà di navigazione.
Come sostiene l’ex primo ministro australiano Kevin Rudd, l’obiettivo della competizione tra grandi potenze con la Cina non è la vittoria su una «minaccia esistenziale» com’era percepita l’Unione Sovietica, ma piuttosto una «competizione strategica ben gestita».
Questo richiederebbe però di evitare di demonizzare la Cina nonostante i numerosi punti di frizione, dalla questione di Taiwan a quella di Hong-Kong, a quella del trattamento delle minoranze etniche come gli uiguri.
D’altra parte, più il paese diventa sviluppato e prospero, più gli altri paesi asiatici si sentono insicuri e minacciati, una percezione assai forte anche negli Stati Uniti, nonostante il loro bilancio militare sia 100 volte quello del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie e 25 volte quello del National Institutes of Health. Quello di Pechino, in realtà, è un regime fragile e autoritario che teme i suoi stessi cittadini e usa il nazionalismo per consolidare il suo potere: per questo può mostrarsi flessibile solo fino a un certo punto per soddisfare le richieste dei governi stranieri in materia di diritti umani.
La Cina è la seconda più grande economia del mondo, e ben presto sarà la prima. Il suo reddito pro capite rimane però meno di un quarto di quello degli Stati Uniti e il paese affronta una serie di problemi economici, demografici e politici. Il suo tasso di crescita economica sta rallentando, la dimensione della sua forza lavoro ha raggiunto il picco nel 2011 perché la popolazione sta invecchiando e, soprattutto, ha pochi alleati nel mondo. Malgrado la generosità nel costruire infrastrutture in molti paesi del Terzo Mondo ha pochi alleati politici e il faraonico progetto One Belt One Road per aprire una nuova Via della Seta tra la Cina e il Mediterraneo non sembra progredire.
*Fabrizio Tonello
politologo (Università degli Studi di Padova)
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