Per una politica dell’interdipendenza

di Franco Cavalli

 

Molti nella nuova sinistra, comprese le sue componenti ambientaliste e femministe, stanno proponendo una ristrutturazione della società basata sul care, o sulla cura per dirla in italiano, quale via di uscita dalla crisi prodotta dalla pandemia.

 

Una delle difficoltà quando si propone questo discorso sta proprio però nel definire il perimetro di ciò che definiamo come società della cura. E allora il pericolo di perdersi in discorsi fumosi è molto reale. Ben venga quindi questo agile libretto di poco più di 100 pagine, traduzione italiana di un lavoro prodotto, con la solita chiarezza e linearità di tipo anglosassone, dal Care Collective. Quest’ultimo, nato in Gran Bretagna nel 2017 come gruppo di studio orientato ad affrontare le diverse forme del concetto di cura, è poi diventato particolarmente attivo a seguito della crisi pandemica. Ogni partecipante del gruppo proviene da una diversa disciplina e tutte (ci sono però anche un paio di uomini tra di loro) sono state attive anche in contesti politici ed accademici, portando con sé quindi non solo le conoscenze teoriche, ma anche svariate esperienze pratiche.

 

La pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura: badanti, infermieri, lavoratrici domestiche, fattorini, raider e addetti alle pulizie hanno per mesi dominato la scena mediatica, proprio perché normalmente nella società regna sovrana l’incuria. Il sistema neoliberista ha infatti ridotto il tema a questione individuale, da comprare sul mercato, generando così una progressiva privatizzazione dei servizi sanitari, sociali e alle persone. Ma se è evidente che i ricchi possono facilmente delegare i propri bisogni quotidiani a soggetti sfruttati (donne e migranti), come possiamo ribaltare il tutto, cercando di dar vita ad un sistema in cui l’interdipendenza degli uni dagli altri venga strutturata in forme solidali e paritarie? O, per dirla con una frase particolarmente lucida che si ritrova nel testo, come far sì che si arrivi ad una società dove «prendere a carico chi ha bisogno diventi un atto rivoluzionario, non solo quindi sanitario o famigliare» (qui più volte il mio pensiero è andato alle attuali esperienze confederali nel Rojava, o ad alcune strutture sviluppate dagli zapatisti).

 

Il collettivo inglese cerca di rispondere a queste domande individuando quattro cardini fondamentali per dare vita alla comunità di cura: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità.

 

Basandosi soprattutto su esperienze dei movimenti femministi ed ambientalisti, le autrici propongo una cura reciproca, non paternalista né assistenzialista, che non discrimini nessuno e che si muova al di fuori delle logiche di mercato. In un’interessante post-fazione della giornalista italiana Jennifer Guerra si sottolinea come queste prospettive sono fortemente in contrasto con la situazione che prevale attualmente: basti pensare che in Italia quasi l’80% delle persone che lavorano nel settore della cura alla persona (incluse le lavoratrici domestiche, le addette alle pulizie, le badanti e le babysitter) sono donne straniere. Quindi al tradizionale sfruttamento del lavoro femminile non pagato si aggiunge ancora la componente razziale o dell’ipersfruttamento dei migranti. Tutto ciò sembra però non rientrare nel confuso dibattito attualmente in corso sulla destinazione dei fondi del recovery fund, dove i molto miliardi a disposizione sembrerebbero essere destinati ad essere investiti ancora una volta solo in una crescita finanziaria, che favorirà ancora una volta la casta dell’1% che domina ormai le nostre società. Tant’è vero che le Borse di tutto il mondo capitalista continuano a passare da un trionfo all’altro.

 

Ecco perché è importante cambiare registro e questo libricino ci indica molte piste non solo utili, ma anche percorribili. L’obbiettivo finale è arrivare ad un vero e proprio «stato di cura» che non solo crei infrastrutture di welfare generalizzate, ma che generi anche una nuova idea di democrazia orientata ai bisogni collettivi. Realizzando quindi nella vita quotidiana l’assioma che la cura è il concetto e la pratica più radicale che abbiamo oggi a disposizione.

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