Dove va la Cina?

Sguardi incrociati sul dragone: Simone Pieranni e Alfonso Tuor a confronto

di RedQ

 

Tutti sanno che le relazioni tra Cina e Stati Uniti sono in una delicata fase di riequilibrio. Quello che è meno noto, complice la superficialità e il silenzio dei mass media «rispettabili» (e di riflesso dei nostri giornalisti), è che un forte vento di cambiamento spira anche nella stessa Cina.

In che direzione si muove, dunque, il dragone? Ne abbiamo parlato con i giornalisti Simone Pieranni e Alfonso Tuor, che da anni si occupano della politica interna del paese. Pieranni, giornalista de Il Manifesto e cofondatore del collettivo China Files, ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014 e ha recentemente pubblicato il libro La Cina nuova (Laterza, 2021), lettura utile per chi volesse approfondire i temi trattati in questa intervista. Tuor, giornalista presso il gruppo Corriere del Ticino e insegnante SUPSI in Economia aziendale, ha a sua volta vissuto in Cina ed è presidente dell’Associazione Culturale Ticino-Cina. Nella sua attività giornalistica segue con assiduità l’attualità cinese, di cui è uno dei massimi conoscitori sulla scena mediatica ticinese.

 

 

Il discorso di Xi Jinping del 17 agosto 2021, con l’invito ad accelerare i tempi per realizzare una «società armoniosa» in Cina – che comporta una forte estensione di quello che noi definiamo come welfare state, ma anche una certa ridistribuzione dei redditi – è sicuramente una pietra miliare della storia contemporanea della Cina. Siete d’accordo con questa valutazione? Pensate che questa scelta sia una decisione frutto delle pianificazioni di lungo termine del PCC, o si tratta piuttosto di un’accelerazione dovuta alla paura di un acuirsi delle tensioni con gli Stati Uniti, per cui il PCC vuole garantire una maggiore coesione sociale in vista di un possibile scontro?

 

Alfonso Tuor L’obiettivo di una «prosperità condivisa», che è la parola d’ordine lanciata da Xi Jinping, determinerà la propria fase dello sviluppo dell’economia cinese. Questa svolta risponde ai problemi e anche ai fermenti politici e sociali provocati dall’eccezionale boom economico degli ultimi quaranta anni e contemporaneamente all’inasprirsi del confronto con gli Stati Uniti. Infatti le riforme di Deng Xiaoping hanno dato priorità alla crescita e alla modernizzazione del Paese, ma hanno provocato anche un’esplosione delle disuguaglianze che oggi sono superiori a quelle degli Stati Uniti. Il Partito Comunista Cinese ha negli ultimi anni combattuto la povertà estrema migliorando le condizioni di vita di circa 60 milioni di persone, ma nel Paese, come ha detto il premier Li Keqiang, vi sono ancora 600 milioni di cittadini che hanno beneficiato molto poco del boom economico, mentre sempre in Cina vi è un aumento vorticoso dei miliardari. Contrariamente a quanto si crede in Occidente, da tempo è in corso il dibattito politico tra il modello capitalistico indicato da Deng Xiaoping e un modello che tornasse a privilegiare l’eguaglianza sociale. Questa discussione avviene sia all’interno del partito sia nella diffusione di centri di studio e associazioni, che vengono chiuse se si oppongono o non hanno protezione nei vertici del partito. E infatti questa battaglia è stata anche pubblica (per chi capiva e voleva leggerla). L’apice è stato raggiunto nella grande battaglia per la successione di Hu Jintao circa dieci anni fa. Da una parte vi era Bo Xilai, che perorava un ritorno al maoismo quindi ad una politica che privilegiasse la lotta alle disuguaglianze e che archiviasse la politica di Deng, e dall’altro Xi Jinping. che grazie all’appoggio di Hu Jintao e Wen Jiabao assurse al potere. E proprio nell’ultimo decennio vi è stato un fiorire di centri di studio e associazioni che si richiamano al maoismo e che non sono state chiuse a conferma che potevano contare su grandi protezione ai massimi vertici del potere. Quindi la discussione interna non si è affatto chiusa con la nomina di Xi Jinping. Anzi, Xi Jinping, con la battaglia contro la corruzione e con il grande impegno teso a rafforzare la presenza e il potere del partito nella società cinese, ha posto le basi per questa svolta. Bisogna però fare molta attenzione: nelle conclusioni del Comitato centrale del PCC, conclusosi lo scorso 11 novembre, Xi Jiping ha cercato di paragonarsi a Mao, ma non è riuscito a cancellare il ruolo di Deng nella storia del partito. Ciò vuol dire che il confronto interno non si è concluso e vuol dire pure che la parola d’ordine «prosperità condivisa» è sostenuta da una maggioranza che però non vuole assolutamente mettere in discussione le riforme economiche di Deng. Quindi si può dedurre che ai vertici non c’è ancora unanimità, che forse verrà raggiunta con le nomine che verranno annunciate al Congresso dell’anno prossimo. In ogni caso non si deve pensare che la strategia della «prosperità condivisa» si articolerà soprattutto nei primi anni nella creazione di uno stato assistenziale di tipo europeo, come confermano le prime decisioni che appunto mirano invece a modificare i meccanismi di funzionamento dell’economia. Non vi è nemmeno dubbio che il sempre più aspro confronto con gli Stati Uniti abbia favorito questa svolta. In merito, è stata annunciata una precisa strategia, ossia la «doppia circolazione» dell’economia. In pratica, stabilire una circolazione per il mercato interno ed una seconda per quello esterno. Lo scopo è chiaro: Pechino teme e quindi si prepara ad un blocco e/o a una forte contrazione delle esportazioni verso i Paesi occidentali. Quindi vuole sviluppare i consumi interni. E per raggiungere questo obiettivo cosa c’è di meglio che migliorare i redditi degli strati sociali meno favoriti? Infatti in questo modo si colgono due piccioni con una fava: si migliorano le condizioni di vita dei poveri e si rafforza la domanda interna in grado di compensare la chiusura dei mercati occidentali ai prodotti cinesi.

 

 

Mentre il modello dell’URSS era un capitalismo di Stato basato su una pianificazione centralizzata e molto burocratica, la Cina, vedendo in queste caratteristiche una delle ragioni del fallimento dell’URSS, sembra sempre più intenzionata a realizzare un sistema ibrido, dove le decisioni economiche fondamentali e le leve di comando dell’economia sono sempre più nelle mani dello Stato, ma per realizzare gli obiettivi fissati si cerca anzitutto di sfruttare le forze di mercato. Viene quindi alla mente quanto diceva Arrighi nel suo libro «Adam Smith a Pechino», ad esempio che per invertire il processo di migrazione di lavoratori dalle campagne alle zone ricche ed industrializzate, si aumenta di molto il salario minimo di quest’ultime, cosicché molte aziende private decidono di trasferirsi nell’entroterra, dove i costi sono minori. Alla fine tutto si riequilibra, come desiderato, ma sfruttando in buona parte le forze di mercato.

 

Simone Pieranni Partirei da quanto detto da Xi il 17 agosto scorso, come riportato dal Quotidiano del Popolo: «La prosperità comune è la prosperità di tutte le persone. È la vita materiale e spirituale delle persone. Non è la prosperità di poche persone, né è un uniforme egualitarismo. È necessario incoraggiare il duro lavoro e l’innovazione per arricchirsi: creare condizioni più inclusive ed eque affinché le persone migliorino il loro livello di istruzione e le capacità di sviluppo». In che modo si potrebbe ottenere? Bisogna «Espandere i redditi medi, aumentare i redditi bassi, regolare ragionevolmente i redditi alti, vietare i redditi illegali» e promuovere l’equità e la giustizia sociale. Xi Jinping ha anche citato «la fase primaria del socialismo», «la proprietà pubblica» come base del sistema economico. Ci sono parecchi spunti. Intanto Xi ha specificato che la «prosperità comune» non è «egualitarismo», per distinguersi dalla «prosperità comune» citata proprio dal Quotidiano del Popolo, ma negli anni ’50. Si può già capire di cosa si tratta? La zona del territorio cinese dove bisogna guardare per vedere – in parte – applicata la «prosperità comune» è lo Zhejiang. Si tratta di una regione dove ha «servito» lo stesso Xi Jinping nonché una delle più ricche del paese. Proprio il livello di redditi molto alti – in media – fa sì che questa regione costituisca un punto di partenza. Come? Intanto, da quanto emerso da interventi e analisi, la Cina prevede tre meccanismi di redistribuzione: quella primaria, effettuata dal mercato secondo il principio di efficienza; la secondaria è quella dello Stato attraverso la fiscalità, la previdenza, l’allocazione di risorse; quella terziaria è guidata dalle donazioni da parte di individui. Partiamo dall’esempio in atto in Zhejiang, per arrivare alla domanda su cosa si intenda per «redistribuzione terziaria». Un professore e un ricercatore dell’università dello Zhejiang, Li Shi e Yang Yixin, hanno scritto un lungo articolo su quanto fatto ad oggi. Una prima leva è la digitalizzazione: «Negli ultimi anni, l’economia digitale e la sharing economy dello Zhejiang hanno goduto di un buon ritmo di sviluppo. È necessario cogliere questa opportunità, lavorare sodo per espandere l’occupazione, creare più posti di lavoro, promuovere una maggiore qualità (...), attraverso l’istruzione e la formazione permanente, migliorare la qualità e il livello di competenza dei lavoratori (...), promuovere la contrattazione collettiva e il meccanismo di negoziazione salariale del settore». Poi, a conferma che gli squilibri sono soprattutto da ritrovare nelle vite dei lavoratori: «Migliorare il meccanismo di crescita stabile dei salari, (...) sistemi di garanzia del pagamento dei salari». Poi c’è un capitolo dal titolo «La prosperità comune non è egualitarismo» (vi ricorda qualcosa?) I due fanno alcuni esempi, a conferma del ruolo del mercato: «Per i residenti urbani, è necessario utilizzare attivamente prodotti finanziari, innovarli, per ampliare i canali di investimento dei residenti; per i residenti rurali, aumentare il reddito da proprietà». Sul terzo aspetto, quello «filantropico» la rivista Caixin ha ricordato l’opera di Li Yining, noto economista, che nel 1994 aveva teorizzato «il meccanismo di distribuzione terziario» che coincide esattamente con «l’idea» di Xi Jinping lanciata ai miliardari. Guardate la definizione: «La ricchezza guadagnata da persone e imprese è il risultato della loro ingegnosità e del loro duro lavoro. Tuttavia, è anche dovuta al rapido sviluppo economico della Cina, al lavoro della popolazione, alle infrastrutture e alle politiche che hanno potuto utilizzare a proprio vantaggio. Pertanto, dovrebbero restituire parte della loro ricchezza personale alla società». Come farlo? Si tratta di uno dei temi più complessi e sui quali si stanno cimentando in diversi intellettuali ed economisti. Le ragioni di tutto questo a mio avviso sono da ritrovare nelle sfide che la Cina ha di fronte: in questo senso la prosperità comune si pone come nuovo patto sociale e come obiettivo di lungo termine grazie al quale sarà necessario sopportare qualche riforma turbolenta: le pensioni e la tassa sulla proprietà della casa (l’80 per cento delle famiglie cinesi possiede una casa).

 

 

Gli interventi dello Stato cinese sono sempre più energici in molti campi fondamentali (regolamentazione digitale, consumo energetico), mentre al contempo vengono prese le decisioni di «lasciar perdere alcuni settori» (pensiamo al fallimento di Evergrande). Tutto ciò dà l’impressione che Xi Jinping voglia effettivamente arrivare a trasformare profondamente la società e l’economia cinese. Cosa ne pensate?

 

Simone Pieranni L’intento sembra essere quello ed è anche obbligato: la prosperità comune, che sancisce questo passaggio da un’economia più controllata dallo Stato – una tendenza che in realtà precede Xi e può considerarsi avviata dal 2008 – significa anche riequilibrare tante discrepanze causate dalla crescita cinese vertiginosa degli ultimi anni: diseguaglianze, regioni più indietro, questione ambientale. Evergrande è un altro messaggio ancora: in sostanza il PCC non l’ha salvata, come capitato in passato. È un segnale per il settore nel quale si annida da tempo una bolla pronta ad esplodere, cioè quello delle costruzioni. Settore che non poteva più procedere come nel passato. C’è un rischio: tra le molte persone che rimarranno con il cerino in mano, cioè con mutui ventennali per case che non verranno mai costruite ci sono classe media e molti lavoratori. Anche in questo caso Xi e il PCC giocano su un crinale piuttosto rischioso: da un lato riequilibrare la crescita (più qualità), dall’altro convincere chi rimarrà bruciato da questi passaggi che il fine è superiore, la prosperità comune appunto. Analogo discorso vale per la crisi energetica.

 

Alfonso Tuor Rimettere in riga i grandi del web cinese è stata una decisione giusta che dovrebbero imitare anche gli Stati Uniti e i Paesi occidentali se non vogliamo che essi continuino ad infrangere la nostra privacy e ben presto anche da essere più forti dello stesso potere politico. Queste mosse sono state una riaffermazione del primato del partito. La chiusura dei doposcuola privati e la stretta imposta al settore immobiliare fanno invece parte della strategia di una società più armoniosa. Infatti le famiglie cinesi spendono una fortuna per iscrivere i loro figli a questi doposcuola privati sperando che riescano a superare la classe e soprattutto ad ottenere risultati brillanti all’esame di maturità, da cui dipende l’entrata nelle migliori università cinesi. Per ottenere questo risultato è stata pure varata una riforma scolastica che rende meno arduo e faticoso il percorso degli studenti. Anche la stretta imposta ai «palazzinari» va in questa direzione: calmierare i prezzi immobiliari che sono saliti alle stelle. Questa è comunque una decisione ardita, poiché potrebbe provocare una crisi del mercato immobiliare che farebbe infuriare molte famiglie cinesi. Pure in questa direzione vanno le regole per proteggere i «rider» schiavi delle società dedite all’e-commerce e la proibizione della consuetudine, diffusa soprattutto nelle società del web, del 9-9-6, ossia dell’orario di lavoro dalle 9 del mattino alle 9 di sera per sei giorni ogni settimana. Come si può constatare, per il momento si cambiano le regole di funzionamento dell’economia privata.

 

 

Nonostante la pandemia, e anzi grazie al fatto che è riuscita a controllarla in modo spettacolare, la Cina sta sempre più minacciando il primato economico degli Stati Uniti. Persistono però delle debolezze strutturali: penso al problema dei microchip per esempio. Come valutate questa situazione?

 

Simone Pieranni I microchip sono il tallone d’Achille dello sviluppo tecnologico cinese; in questo caso la Cina paga il ritardo causato dalla rivoluzione culturale in un settore nel quale vige la legge di Moore, ovvero di un aumento esponenziale. A questo proposito la Cina ha chiesto alle aziende di spingere ma secondo alcuni analisti del settore il ritardo è ancora troppo ampio. Non bisogna però sottovalutare la possibilità che Pechino con l’Intelligenza artificiale non possa arrivare a microchip di nuova generazione. Si tratta però di un tema piuttosto delicato e in questo senso entra anche l’attuale trade war con gli Usa a cercare di chiudere ogni fonte di approvvigionamento cinese (vedi Taiwan). A pagare caro sono state alcune aziende come Huawei che hanno perso posizioni di mercato importanti nella vendita di smarthphone. Al momento la Cina sta portando avanti un vero e proprio decoupling tecnologico: per quanto sgradito viene visto come unico modo per arginare la pressione americana, promuovendo l’autosufficienza tecnologica. Tutti gli sforzi sono in quella direzione.

 

 

Molti storici parlano già del fatto che la potenza della Cina metterà fine a mezzo migliaio di anni di dominio dell’uomo bianco. È però evidente che la supremazia militare americana è ancora schiacciante. Quanto grande è il pericolo che si cada nella famosa «trappola di Tucidide»?

 

Alfonso Tuor Gli Stati Uniti sono già caduti nella trappola di Tucidide: temono che la Cina metta in pericolo la loro leadership mondiale. E ne hanno ben donde. Il potere americano si fonda su quattro fattori: il primato tecnologico, che è insidiato dalla Cina presto anche nei semiconduttori, la soverchiante potenza militare, il potere finanziario e last but not least il potere del dollaro. E in prospettiva la Cina, che l’anno prossimo introdurrà la prima cripto valuta statale, minaccia proprio il ruolo di moneta internazionale del dollaro. Senza il dollaro il potere americano verrebbe fortemente ridimensionato. Quindi Washington, che si avvale anche del sostegno dei vassalli europei, ha iniziato la politica di contenimento della Cina, che ricalca quella seguita contro l’Unione Sovietica. Credo che essa fallirà e quindi, vista la posta in gioco, gli Stati Uniti cercheranno la via del conflitto spingendo Taiwan a dichiarare l’indipendenza e costringendo Pechino ad intervenire militarmente. Poi cosa succederà, nessuno lo sa.

 

Simone Pieranni Domanda complicata e forse dalla risposta impossibile. In 2034, un libro scritto da due ex ammiragli americani, si prospetta una guerra nucleare tra Cina e Usa a partire dal mar cinese meridionale e si focalizza su Taiwan. Credo che in quell’area il rischio di conflitto esista considerando il traffico di navi e aerei da guerra, ma al momento si tratta di una corda che viene tirata forse, spero, perché si sa che non si spezzerà mai. Di sicuro quello che è a mio avviso alla base dello scontro commerciale, da cui le ricadute diplomatiche e simil guerresche, è il cambio di paradigma cui stiamo assistendo, ovvero che oggi l’innovazione arriva da Oriente non solo dalla Cina tra l’altro, Vietnam, Indonesia ad esempio sono due mercati impressionanti da quel punto di vista e in India ogni giorno nasce un unicorno tech. Da questo discende anche la consapevolezza di un cambio nell’ordine mondiale che mette in discussione i valori sui quali si basano le società occidentali, sovradimensionando, a mio modo di vedere, la volontà cinese di «cambiarci» o di esercitare una forma di imperialismo come quello americano che abbiamo conosciuto. Anche nel summit con Biden, Xi ha specificato una cosa molto importante: la Cina non vuole esportare alcun modello. Presupporre, come fa Biden, uno scontro di civiltà rischia di portare alle guerre. Esercitare una politica di potenza senza ricadute militari, come fa la Cina, porta a cambiamenti negli equilibri ma non a conflitti.

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