di Pablo Neruda
Traduzione a cura di Orlando Patricio Sanhueza e Medea Savary
I
A Ovest del fiume Colorado
c’è un posto che amo.
Ci vado con tutto ciò che palpitante
avviene in me, con tutto
quello che ero, quello che sono, quello che sostengo.
Ci sono alte pietre rosse, l’aria
selvaggia di mille mani
le ha fatte strutture costruite;
lo scarlatto cieco è salito dall’abisso
e in esse è diventato rame, fuoco e forza.
L’America estesa come la pelle del bufalo,
leggera e chiara notte del galoppo,
lì verso le alture stellate,
bevo il tuo bicchiere di verde rugiada.
Se, per l’Arizona aspra e il Wisconsin intricato,
fino a Milwaukee sollevata contro il vento e la neve
o nelle impetuose paludi di West Palm,
vicino alle pinete di Tacoma, nel denso
odore di acero delle tue foreste,
ho camminato sulla madre terra,
foglie blu, pietre a cascata,
uragani che tremavano come tutta la musica,
fiumi che pregavano come monasteri,
anatre e mele, terra e acqua,
quiete infinita perché possa nascere il grano.
Là ho potuto, nella mia pietra centrale, diffondermi nell’aria
occhi, orecchie, mani, sino ad udire
libri, locomotive, neve, lotte,
fabbriche, tombe, passaggi vegetali,
e da Manhattan la luna sulla nave,
il canto del filatoio,
il cucchiaio di ferro che mangia la terra,
il trapano con il suo colpo di condor
e quanto taglia, pressa, corre, cuce:
esseri e ruote che si ripetono e nascono.
Amo la piccola casa del contadino.
Recenti madri dormono
armate come sciroppo di tamarindo, tessuti
stirati di fresco. Brucia
il fuoco in mille case circondate da cipolle.
(Gli uomini quando cantano vicino al fiume hanno
una voce roca come le pietre in fondo:
il tabacco uscì dalle sue larghe foglie
e come un elfo del fuoco è venuto in queste case.)
Missouri vieni a vedere il formaggio e la farina,
le tavole profumate, rosse come violini,
l’uomo che naviga nell’orzo,
il puledro blu appena cavalcato odora
il profumo del pane e dell’erba medicinale:
campane, papaveri, fucine,
e negli sgangherati cinema selvaggi
l’amore apre la sua dentatura
nel sogno nato dalla terra.
II
È la tua pace che amiamo, non la tua maschera.
Non è bella la tua faccia da guerriero
III
Sei bella e vasta Nord America.
Vieni da un’umile culla come una lavandaia,
vicino ai tuoi fiumi, bianca.
Costruita nell’ignoto,
la tua pace a nido d’ape è la tua dolcezza.
Amiamo il tuo uomo con le mani rosse
di fango dell’Oregon, il tuo ragazzo nero
che ti ha portato la musica nata
nella sua terra d’avorio:
amiamo la tua città, la tua sostanza,
la tua luce, i tuoi meccanismi, l’energia
dell’Ovest, il pacifico
miele da apiario e villaggio,
il ragazzo gigante sul trattore,
l’avena che hai ereditato
da Jefferson, la ruota che ronza
che misura la tua terrestre Oceania,
il fumo di una fabbrica e il bacio
numero mille di una nuova colonia:
il tuo sangue di labrador è ciò che amiamo:
la tua mano popolare piena d’olio.
(…)
IV
Ma se armi le tue truppe, Nord America,
per distruggere quel confine puro
e portare al macellaio di Chicago
per governare la musica e l’ordine
che amiamo,
usciremo dalle pietre e dall’aria
per morderti:
usciremo dall’ultima finestra
per darti fuoco:
emergeremo dalle onde più profonde,
per inchiodarti con le spine:
usciremo dal solco in modo che il seme
colpisca come un pugno colombiano,
usciremo a negarti pane e acqua,
usciremo per bruciarti all’inferno.
(…)
In altre guerre c’erano fossati con l’acqua
e poi ripetuto filo spinato, con artigli e punte,
ma questo fossato è più grande, quest’acqua è più profonda,
questi fili sono più invincibili di tutti i metalli.
Sono un atomo e un altro di metallo umano,
sono un nodo e mille nodi di vite e vite:
sono gli antichi dolori dei popoli
di tutte le valli e i regni remoti,
di tutte le bandiere e navi,
di tutte le grotte dove si sono ammucchiati,
di tutte le reti che sono uscite contro la tempesta,
di tutte le ruvide rughe della terra,
di tutti gli inferni nelle caldaie calde,
di tutti i telai e le fonderie,
di tutti le locomotive smarrite o riunite.
Questo filo fa mille volte il giro attorno al mondo:
sembra diviso, esiliato,
e improvvisamente i loro magneti si uniscono
finché la terra non sarà piena.
Ma ancora
oltre, radiosi e determinati,
duri, sorridenti,
per cantare o combattere
ti aspettano
uomini e donne della tundra e della taiga,
guerrieri del Volga che hanno vinto la morte,
bimbi di Stalingrado, giganti dell’Ucraina,
tutto un vasto e alto muro di pietra e sangue,
ferro e canzoni, coraggio e speranza.
Se toccate quel muro cadrete
bruciati come carbone nelle fonderie,
i sorrisi di Rochester si faranno tenebre
che poi diffonderà l’aria della steppa
e poi seppellirà la neve per sempre.
Verranno coloro che hanno combattuto da Pedro
fino ai nuovi eroi che hanno stupito la terra
e faranno delle loro medaglie piccole pallottole fredde
che fischieranno senza tregua da tutta
la vasta terra che oggi è gioia.
E dal laboratorio ricoperto di rampicanti
uscirà anche l’atomo senza catene
verso le vostre città orgogliose.
V
Che niente di tutto questo accada.
Che si svegli il taglialegna.
Che venga Abraham con la sua ascia
e con il suo piatto di legno
a mangiare con i contadini.
Che la sua testa di corteccia
i suoi occhi visti sulle tavole,
tra le rughe della quercia,
guardi di nuovo il mondo
scavalcando il fogliame,
più alto delle sequoie.
Che entri a comprare in farmacia,
che prenda un autobus per Tampa,
che addenti una mela gialla,
che entri al cinema, che conversi
con tutte le persone semplici.
Che si svegli il taglialegna.
Che venga Abraham, che si gonfi
il suo vecchio lievito la terra
dorata e verde dell’Illinois,
e sollevi l’ascia nel suo popolo
contro i nuovi schiavisti,
contro la frusta dello schiavo,
contro il veleno della stampa,
contro la merce
insanguinata che vogliono vendere.
Che marcino cantando e sorridendo
il giovane bianco, il giovane nero,
contro i muri d’oro
contro il creatore dell’odio,
contro il mercante del suo sangue,
cantando, sorridendo e vincendo.
Che si svegli il taglialegna.
VI
Sia pace per i crepuscoli che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
e che nel mio sangue risalgono legando
con l’antico canto terra e amori,
e sia pace per la città all’alba
quando si sveglia il pane, pace al fiume
Mississippi, fiume delle radici:
e pace per la veste del fratello,
pace al libro come sigillo d’aria,
pace per il gran kolchoz di Kiev;
e pace per le ceneri di questi morti,
e di questi altri morti; sia pace sopra il ferro
oscuro di Brooklyn, sia pace al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida
nel megafono rivolto alle edere,
pace per la mia mano destra,
che soltanto sa scrivere Rosario,
pace per il boliviano segreto
come pietra nel fondo d’uno stagno, pace
perché tu possa sposarti, pace per tutte
le segherie del Bío Bío,
pace per il cuore lacerato
della Spagna partigiana:
sia pace per il piccolo Museo del Wyoming,
dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio e i suoi amori,
e pace per la farina, pace
per tutto il grano che deve nascere,
pace per ogni amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
pace per tutte le terre e per le acque.
E ora qui vi saluto, torno
alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno nella Patagonia dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio l’oceano.
Non sono che un poeta: vi amo tutti,
vago per il mondo che amo:
nella mia patria incarcerano i minatori
e i soldati dànno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud,
alle campane comprate da poco.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra,
battendo dolcemente le nocche sulla tavola.
Non voglio che il sangue
torni a inzuppare il pane, i legumi,
la musica: voglio che vengano
con me il minatore, la ragazza,
l’avvocato, il marinaio,
il fabbricante di bambole,
che entriamo in un cinema e che usciamo
a bere il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare e per farti cantare con me.
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