PIAZZA APERTA - collettivo femminista Io l’8 ogni giorno
Le Camere federali hanno iniziato a esaminare la revisione del Codice penale in materia di reati sessuali.
È un'opportunità storica per uscire finalmente da una concezione retrograda e patriarcale della violenza sessuale. La prima proposta di modifica – che prevedeva l’introduzione di un nuovo reato di “aggressione sessuale” che si configurava come una sorta di stupro di serie B, legando di fatto la gravità del reato al comportamento e alla capacità di reagire della vittima – fortemente critica anche dal nostro collettivo durante la procedura di consultazione, è stata fortunatamente cestinata. Tuttavia la nuova soluzione proposta dalla maggioranza della Commissione degli affari giuridici del Consiglio agli Stati è ancora insufficiente!
L’attuale proposta di revisione si fonda infatti sul principio del “no vuol dire no” e non sul concetto di “consenso” (“solo sì è sì”), concetto ritenuto centrale anche all’interno della Convenzione di Istanbul e sostenuto anche dalla minoranza della Commissione. La prospettiva del consenso, formulata nel "solo sì è sì", è stata richiesta e invocata da una larghissima coalizione di organizzazioni, collettivi, reti e associazioni, indipendenti e istituzionali, autonome e pubbliche negli scorsi anni. Una mobilitazione dal basso, interpartitica e intergenerazionale che non può in alcun modo essere ignorata dal Parlamento federale!
No è no / solo sì è si. Quale è la differenza?
A prima vista le due soluzioni sembrano molto simili, ma in realtà si fondano su due opposte visioni dei rapporti tra i generi e della sessualità. Detto in modo un po’ diretto, esigere che la vittima esprima chiaramente la sua volontà di non partecipare a un atto sessuale, presuppone infatti che tutte (e tutti) siamo sempre disponibili e interessate a compiere qualsiasi atto sessuale con chiunque. Ossia che – senza espressione di una volontà contraria – una donna è per default disponibile e consenziente.
La soluzione fondata sul concetto di consenso (solo sì significa sì) mette invece al centro l’indispensabile consenso reciproco, liberando in particolare le donne dal peso di un secolare immaginario che le vuole per loro natura sempre disponibili e consenzienti e garantendo loro il pieno diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo e sulla propria sessualità.
Non dire di no, non significa dire di sì!
Al di là di queste, essenziali, considerazioni di fondo, la soluzione del “no è no” non tiene sufficientemente conto di quelle che sono le condizioni in cui realmente spesso si svolge una violenza sessuale: si tratta spesso di atti perpetrati da persone vicine alle vittime, partner o ex-partner, o da persone in qualche modo in posizione di superiorità (gerarchica, economica, sociale, di ruolo o di età,…) nei confronti della vittima. Relazioni nelle quali dire di no non è sempre evidente. Inoltre, di fronte a una violenza le persone reagiscono in modo diverso: alcune cercano di difendersi chiaramente, altre sono come paralizzate (si parla in tal caso di ‘freezing’, una reazione di tipo psicologico e fisiologico che ‘congela’, paralizza la vittima), alcune per difendersi si ‘dissociano’ dal proprio corpo, altre preferiscono non reagire fisicamente perché temono per la propria vita, etc. Non dire di no, non significa dire di sì!
Liberiamoci dalla cultura dello stupro!
Sono molte le critiche che possono essere fatte al rapporto della Commissione, ma – senza entrare ora nei dettagli – crediamo che il problema principale stia nell’incapacità dei revisori di emanciparsi da una visione delle relazioni sessuali ancora intrisa da una certa cultura dello stupro. Con questa espressione si intende «un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta». Come mai, infatti, si continua a esigere dalla vittima di esprimere un chiaro rifiuto, e invece non ci si sofferma sul punto centrale, ossia chiedersi cosa spinge un uomo a compiere (o continuare a compiere) un atto sessuale con una donna che non mostra alcun segno di desiderarlo? Perché ci si aspetta che le donne esprimano il loro rifiuto e non si ritiene invece normale che ciò che deve essere espresso è il desiderio di partecipare all’atto sessuale? Come si fa a credere di stare avendo un “rapporto sessuale” quando la partner è completamente passiva, non mostra alcun segno di piacere o di desiderio?
Di fronte a quella che sembra una vera e propria incapacità a distinguere un rapporto sessuale da uno stupro, ci dobbiamo infatti chiedere quanto l’immaginario collettivo, in particolare quello maschile, sia ancora profondamente influenzato dalla cultura dello stupro, ossia da una visione che tende a banalizzare e normalizzare le violenze sessuali. A leggere il rapporto della Commissione affari giuridici, profondamente intriso di stereotipi, pregiudizi e retaggi culturali, non si può non chiedersi se abbia giocato un ruolo la composizione della Commissione: 10 membri su 13 sono uomini, di cui 7 over 60 e altri due over 55.
Chiediamo dunque che si adotti nella revisione del Codice penale la soluzione fondata sul concetto di consenso, così come proposta dalla minoranza della Commissione, e già ampiamente sostenuta dalla consultazione e dalle mobilitazioni femministe degli scorsi anni nonché dai pareri della commissione di esperti ed esperte della Convenzione di Istanbul.