di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente
Sono innumerevoli le sfide e i problemi che i palestinesi affrontano in questo periodo. Sul piano interno la debolezza estrema dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) si riflette nei rapporti con il governo israeliano di Naftali Bennett e nella frattura, ormai insanabile, con il movimento islamico Hamas che controlla Gaza e raccoglie consensi crescenti in Cisgiordania.
Sul terreno, nella vita quotidiana, il clima è quello di uno scontro permanente tra le comunità rurali e i coloni israeliani che nell’ultimo anno hanno triplicato le aggressioni a danno dei contadini palestinesi (e anche contro gli attivisti ebrei di sinistra). A Gerusalemme Est, demolizioni, confische di terreni e case e le iniziative dell’estrema destra israeliana sono una costante destinata anche quest’anno ad accompagnare gli abitanti della zona araba della città sotto occupazione dal 1967. E questi sono solo i problemi più immediati e visibili.
In tale contesto, la fragilità dell’Anp – in deficit profondo e in crisi di consenso – e la delusione della sua leadership sono state esplicitate a gennaio dalle critiche che, a sorpresa, il ministro degli Esteri palestinese Riad Malki ha rivolto al presidente degli Stati Uniti Joe Biden per essersi mosso troppo lentamente sino ad oggi per invertire le politiche dell’amministrazione Trump contro i palestinesi e per non aver fatto pressione su Israele affinché cessi «il rifiuto della soluzione a Due Stati e dei negoziati». Parlando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Malki ha ricordato che c’erano speranze che la fine dell’amministrazione di Donald Trump e del governo dell’ex primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu «sarebbe stata sufficiente per aprire la strada a un rinnovato slancio verso per la pace». L’amministrazione Biden ha annullato alcune delle politiche di Trump «illegali e sconsiderate», ma, ha aggiunto Malki, «è stata lenta ad agire, in particolare sull’impegno di riaprire il consolato americano a Gerusalemme est in modo da ripristinare la principale missione diplomatica di Washington per i palestinesi» (il governo Bennett si oppone con forza a questa eventualità). «Speravamo» – ha proseguito il ministro palestinese – «che (gli Usa) provassero a spostare la posizione israeliana verso di noi invece abbiamo visto che gli israeliani sono stati in grado di spostare la posizione americana verso di loro». Gli Stati Uniti – ha concluso – «devono ancora garantire che l’attuale governo israeliano rinunci alle sue politiche coloniali». Malki ha quindi sollecitato il sostegno a una conferenza di pace internazionale e ha fatto eco all’appello della Russia per una riunione ministeriale dei mediatori del Quartetto del Medio Oriente – Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia – per uscire dalla paralisi attuale.
Malki ha fatto una disamina corretta del quadro politico. Ma le sue parole fanno sorgere un interrogativo: è mai esistita la possibilità che le cose potessero andare in modo diverso nei rapporti tra Usa e Palestinesi con l’elezione a presidente di Joe Biden? La risposta che danno i commentatori palestinesi indipendenti è negativa. Ed è giudizio diffuso che l’Anp e il suo presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) siano da lungo tempo prigionieri delle proprie illusioni. Alla base di ciò c’è l’idea, radicata ai vertici della leadership dell’Anp, che i Democratici americani siano diversi dai Repubblicani quando affrontano i nodi del conflitto israelo-palestinese e che possano svolgere il ruolo di mediatori neutrali. Gli ultimi 28 anni, dalla firma degli Accordi di Oslo in poi, con inclusi gli otto anni di presidenza Obama, hanno dimostrato il contrario ad ogni occasione. Ciò non ha impedito all’Anp di salutare con entusiasmo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca come se tutti i problemi fossero ormai vicini a una soluzione positiva. Eppure, sono evidenti le strette relazioni, strategiche e diplomatiche, tra Usa e Israele e immaginare che Biden potesse capovolgere il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, solo per citare un punto cruciale, non è solo una illusione: è irrazionale. Per Washington qualsiasi iniziativa di rilievo nella questione israelo-palestinese non può svilupparsi senza il via libera pieno di Tel Aviv. E se differenze tra i due Paesi esistono comunque non riguardano mai punti ritenuti centrali da Israele.
Le speranze vane dell’Anp sono definitivamente crollate dopo che il presidente degli Stati Uniti ha rifiutato di incontrare Mahmud Abbas. Biden si è adeguato, senza ammetterlo, alla posizione del premier israeliano Bennett, un esponente dell’ultranazionalismo religioso, contraria al faccia a faccia con Abbas poiché l’Anp ha portato Israele sulla scrivania dei giudici della Corte penale internazionale per crimini di guerra commessi nei Territori palestinesi occupati. Il processo politico è rinviato a tempo indeterminato e la spinta dell’Amministrazione Usa alla normalizzazione tra Israele e altri Stati arabi (Accordi di Abramo) pone i vertici palestinesi in una posizione di secondo piano e marginale.
Non aver ottenuto nulla di concreto dagli Usa è coinciso con la fase di debolezza più acuta per l’Anp dalla fine della Seconda Intifada nel 2005. Mai come in quest’ultimo anno il consenso per l’Anp è stato tanto basso in Cisgiordania e mai così in crescita per i rivali di Hamas. Agli occhi della popolazione palestinese la legittimità e credibilità della leadership palestinese sono state compromesse dal rinvio delle elezioni legislative e presidenziali dettato, secondo l’opinione di molti, dal timore dell’Anp di uscire sconfitta dal voto. Lo scorso maggio il presidente Abbas, ripetono non pochi palestinesi a distanza di mesi, non è stato all’altezza di difendere Gerusalemme – «come ha saputo fare Hamas lanciando razzi verso Israele», affermano alcuni – e ciò ha eroso la sua popolarità, con sondaggi che mostrano che quasi l’80% dei palestinesi vuole che si dimetta. L’omicidio dell’attivista Nizar Banat da parte di agenti dell’intelligence dell’Anp, seguito dalla repressione dura delle manifestazioni di protesta a Ramallah, ha alimentato la crescente rabbia popolare e fatto il gioco degli islamisti. Hamas, che pure è criticato non poco a Gaza per la sua gestione governativa, si è dimostrato abile nello sfruttare le debolezze dell’Anp ed è opinione diffusa che oggi rappresenti la maggioranza della popolazione anche se i sondaggi non lo confermano. A tutto questo si aggiungono gli effetti della lotta tra coloro che pensano di succedere ad Abbas e l’aggravarsi della crisi economica che ha portato lo scorso anno a pagare solo il 75 per cento degli stipendi dei dipendenti pubblici della PA, con ulteriori tagli attesi nei prossimi mesi.
Il timore che Hamas possa prendere il potere, con un atto di forza o attraverso le elezioni, ha spinto l’Anp a cercare il sostegno dell’occupante israeliano e non, come vorrebbe la popolazione, a trovare un’intesa politica con gli islamisti. Ha destato clamore l’incontro nelle settimane passate tra Abbas e il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz mentre il premier Bennett respingeva a gran voce l’istituzione di uno Stato palestinese e la ripresa del negoziato con l’Anp. L’errore di Abbas, commenta l’analista Hani al Masri, direttore di Masarat, Palestinian Centre for Policy Research and Strategic Studies, sta nell’aver fatto concessioni unilaterali, senza nemmeno la promessa di un’eventuale reciprocità da parte di Israele. «L’Anp ha scelto di riprendere i negoziati con l’occupazione tra aspettative di sicurezza ed economiche notevolmente abbassate», ha scritto Al Masri sul portale Middle East Eye. «Gantz ha offerto misure irrisorie, tra cui un prestito sulle entrate fiscali che Israele raccoglie per conto di Ramallah e la promessa di legalizzare lo status di 9.500 palestinesi privi di documenti e cittadini stranieri a Gaza e nella Cisgiordania occupata. Ma questo è un diritto fondamentale dei palestinesi e l’Anp lo sta pagando attraverso condizioni sfavorevoli».
Secondo l’analista, per la leadership palestinese la porta al negoziato deve rimanere aperta – per quanto improbabile possa sembrare questa prospettiva – perché ritiene che non ci siano alternative. Quindi avrebbe accettato almeno per ora, senza dirlo, la «pace economica» concepita da Israele in alternativa a un accordo politico vero che contempli la nascita di uno Stato palestinese indipendente o la cessazione della colonizzazione israeliana. Una linea che non arresta l’emorragia di consensi e che favorisce la strategia di Hamas che punta proprio sui passi falsi dell’Anp per consolidare le posizioni che già mantiene in Cisgiordania. Non è un mistero per chi vive nei Territori palestinesi occupati che gli islamisti oltre a controllare di fatto il governatorato più grande, Hebron, riscuotano ora sostegni significativi anche a Nablus e Jenin e in alcuni campi profughi.
L’Anp ha bisogno di sostegno per prevenire il suo crollo e Israele ha fornito questa assistenza, peraltro molto prima che Abbas e Gantz si incontrassero. Il governo Bennett continuerà a farlo in futuro perché l’Anp garantisce un coordinamento tra i servizi di intelligence delle due parti e sgrava Israele dall’obbligo di assistere la popolazione palestinese sotto occupazione. «Dobbiamo fare affidamento sulla disponibilità del popolo a continuare la lotta in nome della causa palestinese, piuttosto che affidarci solo ai negoziati, alle concessioni e al coordinamento della sicurezza» esorta Hani al Masri. «La pace economica – conclude – è ingannevole, ha effetti temporanei e non può affrontare le radici del conflitto».
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