di Yurii Colombo, corrispondente da Mosca
I mass-media russi continuano a sussurrare che il 9 maggio durante la parata militare commemorativa per il 77esimo della vittoria della «Grande guerra patriottica» Vladimir Putin sulla Piazza Rossa potrà annunciare la vittoria della «campagna d’Ucraina».
In realtà più passano le settimane e più gli esiti dell’ «Operazione speciale» appaiono sempre più incerti anche se una propaganda martellante su tutti i mass-media continuano a cercare di fornire l’immagine che «tutto sta andando secondo i piani». Gli effetti sull’opinione pubblica sembrano esserci. Secondo l’ultimo rilevamento dell’agenzia di sondaggi «Levada» l’80% dei russi sosterrebbe ora Putin contro il 59% dell’ inizio del conflitto. Dati che però allo stesso tempo confermano la volatilità di una parte dell’opinione pubblica russa.
I fattori che avrebbero spostato parte della popolazione sono facilmente intuibili. In primo luogo il profondo nazionalismo russo nel DNA russo: se il paese viene attaccato ci si raccoglie intorno al governo. Per parafrasare il motto americano i russi ritengono «right or wrong he is my dictator». Un meccanismo che già funzionò egregiamente durante lo stalinismo. Un meccanismo che porta dei pensionati con un assegno di pensione di 100 euro al mese a sentirsi in solidarietà con l’oligarca a cui è stata sequestrata la villa milionaria a Forte dei Marmi. Lo stesso «scatto d’orgoglio» del governo russo che pretenderebbe d’ora in poi il pagamento in rubli di gas e di petrolio ai «paesi non amici» ha alimentato un moto di «dignità nazionale» che trova la forza come scrive il moscovita «Gazeta» di ribellarsi ai diktat del «Nuovo Impero del Male» occidentale.
Biden peggiora la situazione
Del resto le truculente interferenze di Joe Biden che insistentemente ha parlato del presidente russo come «macellaio» e sulla necessità di rimuoverlo dal potere ha aiutato il Cremlino a fornire un’immagine da «cittadella assediata», in cui l’aggressore tenta di dimostrare contro ogni evidenza di essere l’aggredito. Le stesse campagne di russofobia che qua e la sono emerse in tutto l’Occidente hanno dato la possibilità a Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, di sostenere di «essere di fronte a campagne simili a quelle dei nazisti quando bruciavano i libri negli anni ’30». Anche misure come quelle assunte dalla società farmaceutica tedesca Miltenyi Biotec, un produttore di attrezzature e materiali per la terapia cellulare, che ha smesso di fornire alla Russia a causa del conflitto ha prodotto un (giusto) sdegno tra la popolazione visto che non si tratta di sanzioni contro oligarchi, funzionari, personale militare o aziende ma che colpiscono dei malati anche se si tratta, secondo gli esperti, di terapie a cui sono sottoposti pochissimi pazienti. Tuttavia, ci sono altre forme di assistenza medica in cui la Russia è fortemente dipendente dalle attrezzature importate. In Russia circa 50 mila persone sono sottoposte a emodialisi su base permanente e in totale circa 1 milione di persone hanno bisogno di una terapia sostitutiva in un modo o nell’altro. La Russia dipende al 99% dalle importazioni di attrezzature per l’emodialisi e dei materiali di consumo necessari per le persone con insufficienze renali e questi materiali provengono per il 77% da Germania e Giappone. Sanzioni in questo o altri settori sanitari alla Russia potrebbe portare al collasso della catena di assistenza medica per coloro che hanno bisogno di tali cure e mettere decine di migliaia di persone a rischio della vita.
In realtà il presunto aumento della popolarità di Putin è stato anche alimentato da una campagna repressiva senza precedenti nei confronti dei mass-media, di social network indipendenti e dell’opposizione. Moltissimi giornali hanno dovuto chiudere i battenti tra cui «Novaya Gazeta» il giornale del premio nobel Dmitry Muratov, «Rabcor» del celebre studioso socialista Boris Kagarlitsky e dell’emittente televisiva «Dozd», mentre ad Alexey Navalny sono stati inflitti altri 9 anni di prigionia che lo faranno uscire dal carcere forse nel 2034.
Una repressione selettiva che colpisce in particolar modo la variegata sinistra russa. Il Ministero della Giustizia ha dichiarato Viktor Vorobyov, un giovane deputato del Consiglio di Stato della Repubblica Komi del Partito Comunista, «agente straniero» e ora rischia una pesante condanna penale. La deputata, anch’essa comunista del municipio di Voronezh, Nina Belyaeva, lo scorso 22 marzo, è coraggiosamente intervenuta durante il consiglio comunale per dire il suo netto no all’«operazione speciale» e ha invitando i soldati russi a disertare: «Sono contro la decisione presa dal presidente e contro le azioni che stanno avendo luogo oggi sul territorio dello stato sovrano dell’Ucraina» ha concluso. È stata subito espulsa dal partito e posta agli arresti domiciliari. Il partito di Gennady Zjuganov si è schierato nettamente sin dall’inizio degli eventi in Ucraina a fianco del Cremlino e ha messo in piedi a San Pietroburgo e a Mosca una vera e propria caccia alle streghe contro chi si oppone – o mostra solo di avere dubbi – all’intervento militare. Gli attivisti di sinistra di Ufa Pavel Matisov, Yuri Yefimov, Alexey Dmitriev, Dmitry Chuvilin dell’«Unione dei marxisti» e Rinat Burkeyev e il membro del PC della Federazione russa del Bashkortostan sono stati accusati di partecipazione a gruppo terroristico, perché sono sospettati di pianificare la presa di potere violenta.
Sono inoltre già una cinquantina gli studenti dell’Università di San Pietroburgo espulsi per aver partecipato a raduni non autorizzati contro la guerra. Queste misure, associate a quella di controllare il contenuto delle informazioni sui telefonini agli utenti della metropolitana di Mosca, danno l’idea di quale sia ormai il livello di intimidazione raggiunto dalle strutture repressive della Federazione Russa.
Tratto dal Quaderno 37, 10 aprile 2022