Sui binari dell’ingiustizia o di mafia e cantieri

di RedQ

 

Un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Milano per infiltrazioni della ‘Ndrangheta nella costruzione e nella manutenzione delle linee ferroviarie italiane. È l’ultima notizia che riguarda la Generale Costruzioni Ferroviarie (GCF) che ha una sede anche a Bellinzona. 

Sotto inchiesta anche Edoardo Rossi che figura ai vertici sia della società italiana, sia di quella svizzera.

 

Va precisato che vale sempre la presunzione di innocenza e che l’inchiesta d’oltre confine, che coinvolge altri colossi italiani del settore, non ha nessuna relazione con quella aperta dal Ministero pubblico del Canton Ticino per i presunti fatti avvenuti al cantiere del Monte Ceneri, dei quali avevamo riferito anche in un’edizione del 2019 del nostro Quaderno. Nessun legame, insomma. È giusto sottolinearlo, anche se il metodo utilizzato per reclutare, gestire e retribuire la manodopera sembrerebbe simile nei fatti segnalati nelle due inchieste.

 

Tre anni fa GCF aveva fatto parlare di sé per i presunti abusi denunciati da alcuni operai distaccati, impiegati nella posa dei binari nell’ultimo tassello di AlpTransit, la cosiddetta opera del secolo. Alcune testimonianze molto forti e toccanti erano state raccolte in un’inchiesta di «Falò» della RSI. Caporalato, doppi turni (nonostante sulla busta paga dei dipendenti figurassero quasi sempre soltanto otto ore di lavoro al giorno), violazioni delle misure di sicurezza, guida di mezzi senza le necessarie abilitazioni: sono soltanto alcune delle irregolarità raccontate dai dipendenti impegnati nel cantiere pubblico della Confederazione. Tutte le accuse dei lavoratori, sostenuti dal sindacato Unia, sono sempre state respinte in modo categorico dalla ditta del Gruppo Rossi, colosso italiano specializzato nell’armamento ferroviario.

 

La Magistratura sonnecchia

Fatti sui quali la Magistratura ticinese sembra far fatica a fare chiarezza. Anzi, gli inquirenti sembrano muoversi senza molta determinazione. E più passa il tempo, più si affievolisce la possibilità di trovare la verità. Falò aveva mostrato che fatti analoghi a quelli denunciati in Ticino erano già avvenuti su tre cantieri diversi in Danimarca. GCF aveva versato risarcimenti per oltre due milioni di franchi al sindacato 3F per risolvere le vertenze, senza ricorrere alla decisione di un giudice. Nel paese scandinavo esistono poche normative che disciplinano il mercato del lavoro e spesso le controversie vengono regolate in questo modo. Viene infatti delegato quasi tutto alle parti sociali, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, che stipulano contratti collettivi di lavoro e accordi anche in caso di vertenze. Un modello, quello danese, diverso dal nostro, nato da una tradizione e cultura basate sulla fiducia. Un sistema che negli ultimi anni comincia a essere messo in discussione, a causa della maggiore partecipazione ai bandi pubblici di aziende straniere, della concorrenza sleale e del pericolo di infiltrazioni di stampo mafioso.

 

A farne le spese sono gli operai

Nei casi di cui abbiamo riferito, ma anche in molti altri casi, a chiedere giustizia sono gli operai più deboli, più fragili. Sono lavoratori distaccati, con busta paga italiana e che temono con una denuncia di perdere il posto di lavoro o di non trovare più una nuova occupazione. Di loro, una volta tornati nel paese di origine, spesso si perdono le tracce. Sono operai più fragili di altri, perché non hanno molti strumenti per difendersi o tutelarsi. Sono lavoratori che vivono con le loro famiglie in condizioni molto modeste e che spesso decidono di andare a prestare servizio all’estero nella speranza guadagnare qualche soldo in più. Sì, perché il cosiddetto «lavoro distaccato» prevede che il salario versato dall’azienda e le regole da rispettare siano quelle praticate dal paese ospitante. La ditta che si aggiudica una gara pubblica internazionale deve rispettarle secondo le normative vigenti in Europa e in Svizzera. Non si tratta di una concessione fatta agli operai, ma di misure volte soprattutto a tutelare la concorrenza leale. Non a caso da noi vigono dei contratti collettivi di obbligatorietà nazionale, tra cui quello sulle costruzioni ferroviarie, sanciti attraverso decreto del Consiglio federale.

 

Insomma, il principio è che le imprese devono poter gareggiare ad armi pari. Almeno sulla carta al momento dall’aggiudicazione dell’appalto, aggiungiamo noi. Poi, cosa accada durante i lavori e, soprattutto, quando gli operai tornano nel loro paese non è affare di chi ha attribuito l’appalto e spesso interessa poco. E soprattutto nessuno va a indagare.

 

Nell’opinione pubblica è difficile far passare l’idea che lo sfruttamento dei lavoratori stranieri distaccati, oltre che un grave sopruso nei confronti di esseri umani, fa male all’intero sistema economico. Sì, perché potrà sembrare strano sottolineare proprio in questa pubblicazione che «per una ditta che vince un appalto con prezzi al ribasso, sfruttando la manodopera, ce n’è un’altra che perde un’occasione di lavoro». A perdere l’appalto rischia di essere infatti un’azienda seria che ha pure dipendenti con famiglia, che versa salari e contributi sociali accettabili.

 

Accertare la verità e fare giustizia, significa quindi tutelare anche la sopravvivenza di un’economia sana. Ma di fronte alla giustizia chiesta dagli operai stranieri, anche le certezze del mondo liberale svizzero vacillano e appaiono più fragili.

Tratto da: