di Federico Franchini
La scena è stata alquanto surreale. Mentre in Ucraina soffiavano venti di guerra, lo scorso 22 di febbraio il Tribunale penale federale (TPF) ha tentato di collegarsi in videoconferenza con Kiev. Obiettivo: interrogare il boss criminale bulgaro Evelin Banev nell’ambito del processo che vedeva coinvolta Credit Suisse.
Una giudice locale ha informato in un inglese stentato che il narcotrafficante - rifugiatosi in Ucraina, Paese di cui ha ottenuto la nazionalità - non si è presentato all’audizione e che si troverebbe in un’altra città. Impossibile sapere se non ha ricevuto l’ordine di comparizione oppure se si è semplicemente rifiutato di recarsi all’appuntamento. A Kiev, è ovvio, in quel momento le priorità erano altre.
Evelin Banev, che tra Italia, Romania e Bulgaria ha accumulato condanne per 37 anni di carcere, avrebbe potuto svelare dettagli inediti quanto alle sue relazioni con la seconda più grande banca svizzera. La vicenda è degna di un romanzo criminale, fatta di tonnellate di cocaina, omicidi, ville in riva al Lemano e valigie di denaro contante. In sostanza il boss bulgaro aveva scelto la sede di Paradeplatz della banca come perno della sua attività di riciclaggio dei soldi provenienti da un vasto traffico internazionale di cocaina: a Zurigo aveva aperto decine di conti e operato presunte transazioni illecite per oltre 146 milioni di franchi. La banca, così come una sua ex dipendente, sono così finiti al centro di un’inchiesta che, a quasi quindici anni dal suo inizio, è sfociata nel processo apertosi lo scorso 7 febbraio. È la famosa rapidità della giustizia svizzera.
I dibattimenti sono durati tre settimane e si sono conclusi con l’accusa che ha chiesto una multa di cinque milioni di franchi più un risarcimento di 42,5 milioni (l’utile conseguito illecitamente). La data della sentenza non è ancora nota. Credit Suisse potrebbe essere la seconda banca elvetica ad essere condannata dal TPF, dopo quella decretata nei confronti della Falcon a fine 2021. In questo caso, però, trattandosi di Credit Suisse l’eventuale condanna avrebbe un impatto d’immagine maggiore.
Già, l’immagine. Il processo nei confronti della banca per il suo ruolo nella gestione dei conti della mafia bulgara è giunto in un momento alquanto particolare per l’immagine di Credit Suisse. In pieno dibattimento, il 20 febbraio 2022, un consorzio di giornalisti internazionali ha pubblicato gli SuisseSecrets. Un’enorme fuga di dati bancari che riguarda proprio il secondo istituto elvetico. Un’inchiesta che ha portato alla luce il fatto che la banca zurighese, per anni, avrebbe accettato come clienti autocrati, trafficanti di droga (vedi Banev) e di esseri umani, sospetti criminali di guerra, imprenditori in odore di ‘ndrangheta eccetera.
Le informazioni divulgate sono certo importanti, con delle novità e una vista d’insieme che impone una riflessione sulla piazza finanziaria elvetica e sulla storia macabra del segreto bancario. Un segreto che, malgrado sia stato formalmente archiviato, non ha mandato certo in pensione la tradizionale cultura della segretezza elvetica. Per chi dalla Svizzera ha seguito i numerosi dossier che hanno coinvolto le varie banche incappate in questi anni in scandali e vicende penali, gli SuisseSecrets non sono una novità così clamorosa: sono semplicemente un nuovo capitolo di un libro già letto. Credit Suisse in questi anni è finita in diversi scandali: da quello dei cosiddetti Tuna Bonds che ha mandato al collasso uno dei Paesi più poveri del mondo, il Mozambico, a quelli sui fondi Archegos e Greensill fino a quelli più vecchiotti, vedi i fondi Abacha o lo scandalo di Chiasso. Scandali citati anche dalla procuratrice federale Alice de Chambrier nella sua requisitoria del processo Banev per sottolineare come la banca si sia distinta nel tempo e per una cattiva gestione del rischio e da grandi carenze a tutti i livelli della gerarchia e in tutte le divisioni della banca. Tutto questo, ha detto la procuratrice, “in un contesto caratterizzato da enormi profitti per il Credit Suisse, così come da bonus record per alcuni dipendenti, in particolare nel private banking”. Senza nominarli, la procuratrice ha anche menzionato brevemente proprio i nuovissimi SuisseSecrets: “Credit Suisse, come dimostrano i casi recenti, sembra sentirsi al di sopra delle leggi del nostro paese”, ha detto la magistrata. SuisseSecrets che insomma sono una sorta di ovvietà, per quanto degna di nota e ricca di nuovi elementi.
Il vero scandalo, per noi svizzeri, è però un altro. È la museruola che tutti noi giornalisti abbiamo addosso da anni. Una museruola che nemmeno sapevamo di avere tanto abbiamo imparato a smettere di mordere. Ci hanno pensato gli SuisseSecrets a mettere con forza il tema al centro del dibattito politico. Perché anche quella a cui abbiamo assistito il 20 febbraio è una scena surreale: centosessanta giornalisti di 48 media in 40 paesi a svelare i dettagli osceni di uno dei simboli del capitalismo finanziario elvetico e noi cani pastori svizzeri tutti a guardare con la bava alla bocca e chiederci se ci siamo. No che non ci siamo. Non abbiamo potuto. Come è possibile, ordunque?
Per capirlo dobbiamo analizzare l’articolo 47 della legge federale sulle banche, quello che dal 1934 blinda nella legislazione svizzera il caposaldo del segreto bancario. Un articolo introdotto sotto la pressione del mondo bancario e che prevede che tutti gli impiegati e gli organi di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela commettono un delitto. Una legge che è stata rinforzata nel 2015, a seguito di un’iniziativa parlamentare del PLR (il partito delle libertà) nel contesto di un’aumentata pressione internazionale sulla Svizzera e di episodi come gli SwissLeaks, il massiccio furto dei dati dalla filiale ginevrina di HSBC. Allora, il Parlamento ha deciso di estendere la legge a “chiunque, intenzionalmente, divulga un segreto che gli è stato rilevato” in violazione del segreto bancario. Tra questi, ecco che siamo tutti noi, giornalisti compresi, che possiamo essere imprigionati fino a tre anni se divulghiamo dati sui clienti delle banche. Anche quando, poco importa, vi è un indubbio interesse pubblico nelle rivelazioni delle informazioni.
Per questo le testate di TX Group (Tages Anzeiger, Tribune de Genève, 24Heures), che solitamente partecipano a queste inchieste collaborative transnazionali, si sono chiamate fuori. Troppo alto il rischio. Una scelta comprensibile, ma anche strategicamente studiata dato che ha permesso di tematizzare un tema di cui molti, noi giornalisti in primis, eravamo ignari. In Parlamento sono così già stati depositati degli atti, mentre Reporter sans frontières ha detto che questa legislazione pone “una minaccia inaccettabile alla libertà di stampa”. Da parte sua, Irene Khan, rapportatrice dell’Onu per la libertà d’espressione, ha messo in guardia le autorità svizzere: “Perseguire penalmente i giornalisti per aver pubblicato dati bancari di interesse pubblico sarebbe contrario alle norme internazionali sui diritti umani”. Sono intervenuti anche i redattori di quattro grandi testate internazionali per denunciare la minaccia alla libertà d’informazione posta dall’articolo 47 della legge sulle banche svizzere.
I paladini della democrazia che si fanno dare lezioni dall’estero. Un po’ umiliante, non credete? D’altronde è appurato: in Svizzera è più facile per un dittatore o un narcotrafficante aprire un conto bancario che per un giornalista rivelare questa informazione. Funziona così nel Paese delle banche. O meglio: nella repubblica alpina delle banane.
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