Riarmo generale: l’insostenibilità al massimo grado

di Danilo Baratti*

 

«Mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del PIL nell’acquisto di armi, come risposta a quel che sta succedendo adesso. Una pazzia!» (Papa Francesco, 24 maggio). 

Evidentemente Jorge Bergoglio non è a suo agio nell’analisi dei budget statali in fatto di spese militari, se ha dubbi su percento o permille. Ma ha bene in chiaro l’elemento fondamentale: l’assurdità della corsa agli armamenti che si sta scatenando.

 

È una delle conseguenze della guerra insensata, insopportabile e nefasta decisa da Putin che ci porteremo dietro a lungo, indipendentemente dalla durata della fase guerreggiata che al momento in cui scrivo non accenna a chiudersi. In realtà insensata, insopportabile e nefasta è ogni guerra, e però questa lo è particolarmente, per la dimensione incommensurabile dei disastri che sta generando. Per quel che riguarda gli effetti tremendi sulle vite individuali – persone ammazzate, annichilite o in fuga – possiamo anche mettere sullo stesso piano Siria, Yemen e Ucraina, tanto per restare ai conflitti più recenti. Ma qui siamo di fronte a molte ricadute pesanti di portata planetaria. Una di queste è appunto l’accelerazione della corsa agli armamenti.

 

Tra i primi a muoversi la Germania a guida rosso-verde (!!!, e i punti esclamativi, da parte mia, stanno per il verde) che porterà le spese militari al 2%, praticamente raddoppiandole. In Italia la Camera chiede pure a grande maggioranza di passare al 2%, quindi da 25 a 38 miliardi di euro (104 milioni al giorno), con la «responsabile” adesione del PD (non unanime, ma insomma…) secondo cui «questi investimenti hanno ricadute positive anche nel settore civile e aiutano la nostra industria». E via di seguito, un po’ in tutta Europa. Così quel 2% su cui insistevano Trump e la Nato si materializza grazie a Putin. Non si respira un’aria diversa in Svizzera, dove la destra (ma qui almeno è la destra!) chiede un aumento di spesa militare di un paio di miliardi, grossomodo da 5 a 7.

 

 

Non solo colpa di Putin

La guerra di Putin ha un ruolo fatale di acceleratore, ma va detto che la tendenza era già alla crescita. I dati del SIPRI (Stockholm international peace research institute) segnalano per il 2020 una spesa mondiale per gli armamenti di circa 2 trilioni di dollari, con dati regionali quasi tutti al rialzo rispetto all’anno precedente e un aumento totale del 2,6%. Il fenomeno è molto vistoso sullo scenario Asia-Pacifico: «Tutta l’Asia corre a comprare armi», ha scritto Lorenzo Lamperti sul «manifesto» del 9 marzo 2022, da cui traggo i dati che seguono. Nel sud-est asiatico tra il 2009 e il 2018 si è registrato un aumento del 33% (700% in Vietnam), in Giappone c’è stata una crescita negli ultimi anni fino ad arrivare al record storico di 47.2 miliardi di dollari. Pure le Filippine toccano un record storico nel 2022 (+ 7,87%), l’India è a 51,5 miliardi con un aumento del 5%, la Cina ha appena deciso un aumento del 7,1% (per un totale di 230 miliardi), Taiwan ha deciso un bilancio extra per la difesa di 8,55 miliardi (soprattutto per navi e missili). E l’Australia arriverà al 2,5% del PIL.

 

Non è il caso di affastellare altre cifre. La dinamica è palese. E lasciamo pur perdere gli Stati Uniti con le loro cifre astronomiche. Riarmo sfrenato significa anche, inevitabilmente, deterioramento ambientale. Per l’estrazione delle materie prime necessarie a questa industria mortifera, per l’energia sprecata nella produzione e nel trasporto, per gli effetti dannosi delle esercitazioni che andranno moltiplicandosi (anche per mostrare i muscoli o i coglioni) disseminando sul terreno sostanze nocive. Per concludere il ciclo virtuoso aggiungiamoci l’eliminazione (come? dove?) delle armi obsolete. Da questo punto di vista la filiera della guerra è una delle più deleterie anche in caso di mancata applicazione finale. L’insostenibilità allo stato puro. Quanto all’applicazione finale, l’abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi: le distruzioni spaventose di Marjupol e di altre città, le vie di comunicazione sconvolte, le centinaia di carri armati russi danneggiati, che punteggeranno il paesaggio lugubre e rugginoso del dopoguerra insieme agli scheletri delle case sventrate. Altri effetti non li vediamo ma li sappiamo: le bombe a grappolo sparse tra i campi, la polvere radioattiva sollevata a Chernobyl, i liquami chimici fuoriusciti dalle industrie bombardate, le tracce delle bombe al fosforo…

 

 

Futuri disastri qui ed altrove

I massicci investimenti bellici dei prossimi anni andranno a sottrarre risorse ad altri ambiti dell’intervento statale, e penso soprattutto alla questione climatica e agli aiuti sociali. La svolta energetica? I problemi di approvvigionamento energetico portati da questa guerra in teoria spingerebbero verso una rapida uscita dalle energie fossili. Ma gli Stati non potranno investire efficacemente in quella direzione se le loro risorse sono prosciugate da sterili spese militari: sterili per il nostro futuro, non certo per il gongolante apparato militare-industriale. (Intanto l’Europa punta sul gas liquefatto americano, idrocarburo «non convenzionale» prodotto – quasi nessuno lo ricorda – con il controverso metodo del fracking, assai problematico sul piano ambientale).

 

Tornando alla Svizzera, una delle prime manifestazioni di questo clima greve e pernicioso, accanto alla richiesta di un generale aumento delle spese militari, è lo sconcertante invito a sospendere la raccolta delle firme per l’iniziativa popolare che intende impedire l’acquisto degli F-35. Al di là del carattere un po’ ambiguo di quell’iniziativa (ne ho parlato su «Nonviolenza» n. 44, settembre 2021), la sfacciata pressione sull’esercizio dei diritti popolari è allarmante. Più in generale chi si batte per una contrazione delle spese militari e per un’altra idea di sicurezza avrà in futuro vita dura, anche se, e cito ancora una volta il Papa nel suo discorso a braccio al Centro italiano femminile, la vera risposta «non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, come adesso, no?» (è semplice buon senso, ma lo riprendo proprio perché pare oggi del tutto assente in chi ci governa). Poi, a dire il vero, il discorso di chi si oppone in Svizzera a un’idea non armata di sicurezza collettiva non è mai stato facile. Anche le apparenti conquiste, per esempio la riduzione degli effettivi militari (che oggi si vogliono nuovamente aumentare), spesso sono state più un frutto di una logica interna di razionalizzazione che delle critiche antimilitariste. Ma questa ondata di rimbalzo della guerra in Ucraina sembra rimandarci alla casella di partenza, un po’ come era successo negli anni Novanta, con il ciclo di guerre nell’ex-Jugoslavia arrivato subito dopo l’apparente fine della guerra fredda.

 

A poco più di un mese (oggi siamo a 3 mesi) dall’inizio della guerra Putin sembra in grande difficoltà: il suo esercito si è impantanato, Kiev è decisamente fuori portata, l’Ucraina non entrerà nel suo impero, quel che ci rimarrà magari attaccato (almeno per un po’) è distrutto e ancor più incattivito (non è poi che nel Donbass lo venerassero tutti), le voci contro la guerra in Russia continuano a manifestarsi nonostante le massicce incarcerazioni, la Nato si è ricompattata. Un disastro per lui e per la “sua” Russia. Eppure il muscoloso autocrate una vittoria l’ha già ottenuta, anche se in questo frangente non è in condizione di assaporarla: il futuro che ci ha apparecchiato gli somiglia parecchio – maschio, armato, violento. Naturalmente non è tutta opera sua: al di là di tutta la vomitevole retorica sul mondo libero, anche altri attori, in primo luogo la Nato, hanno dato il loro contributo. Ma Putin ha saputo essere un ineguagliabile catalizzatore del peggio.

 

 

 

 

* Danilo Baratti

Coordinatore Verdi Lugano

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