A proposito di Holodomor
di Franco Cavalli
Capita sempre più spesso che si usi in modo poco appropriato, per non dire demagogico, il termine genocidio, ciò che comporta un evidente rischio di banalizzazione della parola.
Tutto ciò avviene spesso con scopi politici quasi mai dichiarati ma evidenti e quasi sempre in una sola direzione. Così per esempio se, almeno alle nostre latitudini, non si usa mai il termine genocidio per quanto i turchi stanno facendo da una decina d’anni contro il popolo curdo, ultimamente non passa giorno che qualcuno non scriva o parli del genocidio attribuito al governo cinese contro la popolazione uigura nello Xinjiang. Tant’è vero che alcuni parlamenti occidentali, tra cui quello olandese, hanno ufficializzato questa accusa in dichiarazioni simili a quella che il parlamento svizzero, dopo anni di dibattiti, aveva emanato sull’incontrovertibile genocidio del popolo armeno perpetrato un po’ più di 100 anni fa dalla Turchia. Sul tema Xinjiang ritornerò in un’altra occasione. Mi limito qui a dire che ultimamente è apparso un grosso lavoro di quello che viene unanimemente considerato come un grande conoscitore della materia (Björn Alpermann, Xinjiang: China und die Uiguren, Würzburg University Press, 2021) che dopo aver valutato tutte le informazioni disponibili, conclude che non si può assolutamente parlare di genocidio, se non possibilmente nel senso figurato di una “repressione della cultura uigura”. Alla stessa conclusione pare essere arrivata, dopo la recente visita sul posto, la commissaria dell’ONU per i diritti umani Michelle Bachelet (che per esempio era stata molto dura contro il Venezuela di Maduro), immediatamente vittima di una feroce campagna denigratoria dei media internazionali, tanto da farle dichiarare che non accetterà il rinnovo del suo mandato.
Holodomor e Stalin
Ma di questi tempi i nostri media parlano ancora più spesso dell’Holodomor, cioè della morte per carestia tra il 1932 e il 1933 di circa 3 milioni di Ucraini, attribuendo intenzioni chiaramente genocidarie a Stalin, quasi come ulteriore dimostrazione della storica malvagità dei russi verso gli ucraini. Difatti in alcuni parlamenti europei, tra cui quello italiano, sono state introdotte mozioni per riconoscere come genocidio quanto avvenuto allora in Ucraina. Per discutere questo aspetto mi baso soprattutto su quanto pubblicato nel suo blog e quindi in HuffPost il 28 maggio di quest’anno da Simone Oggionni, responsabile nazionale del settore culturale di Articolo Uno. Oggionni tra l’altro ha pubblicato un libro notevole su Lucio Magri, di cui avevamo riferito in un numero precedente dei nostri Quaderni.
Prima di entrare nel merito, vale forse la pena ricordare come già dal 1919 Lenin stravolge la politica repressiva della Russia zarista e assicura a diversi popoli, in particolare agli Ucraini, una grande autonomia in tutti i campi, tanto è vero che lo stesso Putin, nel dichiarare il 24 febbraio scorso l’inizio dell’aggressione militare, qualificava Lenin come primo responsabile del problema ucraino.
Cos’è un genocidio
Il termine genocidio definisce qualcosa di preciso e non è un sinonimo di massacro o di tragedia. La “convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, adottata dalle Nazione Unite nel dicembre 1948, lo definisce come la scelta deliberata e consapevole di programmare e praticare lo sterminio (di tutto o in parte) di un gruppo etnico, religioso o nazionale. Quindi non si considera una possibile menzione sociale o di altro tipo, ma chiaramente solo quella etnica, religiosa o nazionale. Questo significa dover dimostrare, per poter parlare di genocidio nel caso dell’Holodomor, la volontà deliberata di Stalin di uccidere milioni di persone in quanto ucraini. Come sottolinea Oggionni, è incontestabile l’esistenza delle “grandi carestie del 1931-1933” che fecero oltretutto svariati centinaia di migliaia di vittime anche al difuori dell’Ucraina, dal Kazakistan alla regione del Volga.
Alla base delle grandi carestie vi fu una pluralità di fattori. Cause naturali (epidemie di tifo, siccità, ecc.), ma sicuramente anche gli effetti della scelta politica di Stalin di accelerare la collettivizzazione forzata delle campagne, soprattutto per drenare risorse per il mastodontico sforzo di industrializzazione dell’Unione Sovietica, che tra l’altro cambiò completamente il paese con un aumento del PIL pro-capite del 61% nei 10 anni successivi. E per Oggionni queste carestie furono in gran parte la conseguenza imprevista, anche perché autopunitiva per il sistema globale, dell’applicazione totalitaria delle scelte economiche staliniane. A partire poi dal settembre 1932 Stalin peggiora ancora la situazione colpendo in modo indiscriminato i Kulaki, cioè i contadini possidenti e tutti coloro che si oppongono al processo di collettivizzazione. Per fiaccare la loro resistenza, Stalin non esista, anche questo è dimostrato in quella che è una delle pagine più atroci dello stalinismo, ad usare contro di loro anche l’arma della carestia. E i dati demografici sono chiari: a morire furono soprattutto coloro che vivevano nelle campagne, molto meno nelle città e indipendentemente dall’origine etnica o dalla lingua parlata. Quindi se già si vuole parlare di uno sterminio deliberato, ciò avvenne su base sociale, ma non su base religiosa, etnica o nazionale, per cui il termine genocidio non sarebbe appropriato.
I russi vittime di genocidio?
Oggionni, per allargare il discorso, si riferisce ad un fatto di cui abbiamo talora parlato in questi Quaderni e a cui personalmente mi ero riferito anche in un mio intervento al Consiglio Nazionale già 15 anni fa. Una delle emozioni, su cui fa leva Putin per giustificare la sua politica imperialista di stampo neo-zarista, è il sentimento revanscistico che prevale in gran parte del popolo russo contro l’Occidente colpevole “di averci distrutti dopo la fine dell’Unione Sovietica”. Uno stato d’animo molto simile prevaleva nel popolo tedesco dopo le ingiuste misure imposte alla Germania dopo la sconfitta della 1° Guerra Mondiale e questa frustrazione fu sfruttata poi da Hitler per arrivare al potere. Dopo la fine del socialismo reale, soprattutto la Banca Mondiale e il FMI, usando Jelzin (che bombardando la Duma aveva posto fine all’esperimento democratico) come marionetta, imposero un drastico passaggio all’economia di mercato e al capitalismo, ciò che causò tra il 1991 e il 2014 nei paesi del socialismo reale una crisi di sovramortalità valutabile nell’ordine di circa 18 milioni di decessi, di cui ben 12 milioni in Russia (When Life Expectancy Is Falling: Mortality Crises in Post-Communist Countries in a Global Context, Nova Science Publishers, 2020, New York). In Russia ci fu difatti una perdita dell’aspettativa di vita per i maschi nell’ordine dei 7 anni: una tragedia enorme e di portata storica. Nonostante ciò, non ci sono però ragioni per parlare di un genocidio contro i russi, ma bensì degli effetti devastanti di una politica economica scatenata contro alcune categorie sociali (giacché parallelamente nacquero le cosiddette oligarchie).
Come conclude Oggionni, non si tratta di “istituire analogie provocatorie, ma soltanto di registrare che ogni fenomeno impone la necessità di definizioni appropriate, non estensive e non alteranti”. Altrimenti arrischiamo di banalizzare in modo molto pericoloso i veri genocidi, a partire da quello della Shoah.
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