Elezioni in Italia. Da dove ripartire?

di Luciana Castellina

 

È successo quello che ci aspettavamo già da tempo: ha vinto, nell’Italia dove l’antifascismo è iscritto nella Costituzione, Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, che non si dichiara fascista perché è illegale, ma non perde occasione per dar prova di esserlo.

 

Non per via del suo simbolo volutamente dominato dalla storica fiamma tricolore, ma per i suoi reiterati legami con tutte le forze simili circolanti in Europa, da quella di Marie Le Pen alla spagnola VOX, ai governi ungherese e polacco. Non che i voti complessivi della destra siano aumentati: però non è privo di pericoli il fatto che Giorgia Meloni abbia assorbito quasi 5 milioni di coloro che solo 5 anni fa avevano votato Lega o Berlusconi.

 

Giorgia ora ha vinto e sarà obbligo del presidente Mattarella affidarle il compito di formare il prossimo governo. Che lei tuttavia sta cercando di presentare come forza in continuità con la sostanza delle politiche che ci hanno già governato: nessuna rottura né con la Nato né con l’UE, stessa politica fiscale, più privatizzazioni possibili, più immigrati annegati (di più, questo sì). Dalla globalizzazione liberista, insomma, non si esce, si usano solo altre parole per far credere che su questo terreno il nuovo governo stia avviando una svolta.

 

In compenso si minacciano apertamente i diritti delle persone, quelli conquistati dalle donne innanzitutto. Il peggio è il disprezzo per la sostanza della democrazia, l’illusione offerta alle vittime del sistema che se si eliminano le “chiacchiere” della politica e ci si affida a una mano forte tutti i problemi possono esser risolti. E perciò tutto il potere a un presidente e per cinque anni tutti zitti, il parlamento reso superfluo.

 

 

Conte meglio di Letta

Sottolineo questo aspetto del nostro futuro governo perché non chiariremmo le idee degli italiani se puntassimo solo sull’antifascismo tradizionale, tralasciando il nocciolo di classe dell’attuale quadro politico. Errore che ha fatto nella campagna elettorale il PD (il vero sconfitto, e per questo Letta, sebbene non pentito, ha già annunciato il suo ritiro) preoccupato di non impaurire i gruppi centristi con cui ha fino all’ultimo cercato di allearsi. A questo fine rompendo con il Movimento 5 stelle, la cui inclusione nel “campo” così detto “largo” offriva la sola possibilità di vincere la destra.

 

Con una decisa caratterizzazione sociale del proprio programma i 5 stelle hanno invece recuperato una buona parte del proprio grande elettorato conquistando – con il 15,43 % – il terzo posto nella graduatoria, poco al di sotto del PD.

 

Negli ultimi anni i “grillini”, nati come protesta “contro la politica”, autodefinitosi “né di destra né di sinistra”, hanno finito per governare con tutti, ma hanno attraversato una esperienza travagliata che li ha fatti maturare, marginalizzando la loro ala più ambigua. Oggi schierandosi, sia pure con una cultura che certo non è quella tradizionale della sinistra, sullo stesso nostro fronte, hanno raccolto moltissimi voti di chi ha voluto così condannare la scelta del PD di non volerlo includere nel “fronte” antifascista. Anche voti nostri, di Sinistra italiana/Europa Verde, una frangia notevole di compagni che hanno rimproverato Sinistra Italiana/Europa Verde (due partiti ma una sola sigla) di aver accettato di sottoscrivere una “coalizione tecnica” con il PD, indispensabile per superare lo sbarramento di una orribile legge elettorale che non consente, come in Francia, la possibilità almeno della “desistenza”, ma lascia i risultati nei collegi uninominali tutti nelle mani dei soli grossissimi partiti. La sola scelta era dunque accettare questa soluzione, a meno di non rinunciare in partenza ad entrare in Parlamento. Cosa che in qualche caso si può anche fare, ma sempre con conseguenze negative anche per chi pure continua a privilegiare il lavoro politico sul territorio. L’hanno subita Rifondazione comunista e Potere al popolo, uniti sotto l’effige del magistrato De Magistris in “Unione Popolare” (per la verità anche per altre ragioni), attestandosi all’1,5% del quorum e dunque restando fuori dal parlamento.

 

Con una percentuale del 3,65% (ma in alcune città molto di più, Bologna il 9%, Padova e Torino il 6%) Sinistra Italiana ha ottenuto invece 5 parlamentari, e altrettanti i Verdi, così garantendo la presenza nel prossimo parlamento di una sinistra che non ha rinunciato a nessuna delle proprie posizioni – a cominciare dalla più grossa, la partecipazione alla guerra – un utile riferimento per la ricostruzione di una sinistra nel nostro paese.

 

Obiettivo urgente, e anche possibile: il dato più significativo di queste elezioni, cui pure nessuno ha prestato attenzione, è che quasi il 40% degli italiani (il 9% in più della volta scorsa) non è andato alle urne. Giovani soprattutto. Non perché sono spoliticizzati, solo perché disinteressati da un dibattito politico istituzionale lontano miglia da quanto considerano importante: il grande cambiamento storico epocale che incombe innanzitutto, ma non solo, per via della minaccia ecologica, di cui nessun ministro si occupa (è stato calcolato che alla questione i discorsi elettorali hanno dedicato lo 0,5% del tempo).

 

Ricostruire la sinistra italiana è possibile, ma si tratta di un lavoro di lungo periodo, che non consiste nel copiare il progetto “melanchoniano”. Non basta infatti rimettere insieme pezzetti di partiti sconfitti come si è fatto in Francia (sarebbe stato possibile se quel paese non avesse subito una scossa ambigua ma travolgente come la rivolta dei gilet gialli?). Si può, dunque, rilanciare una sinistra che porti con sé anche un pezzo di eredità culturale e di esperienza che non si devono buttare. Ma si deve ripartire dalla società, ricostruendo reti comuni e dunque progetti. Non illudendosi che possano tornare i begli anni del dopoguerra, quando fu possibile dar vita a un compromesso sociale che ci ha dato una relativa redistribuzione delle risorse e riforme importanti ormai ovunque (vedi la Svezia) erose.

 

Adesso, o si aggredisce il nocciolo stesso del nostro sistema di produrre consumare vivere – una vera rivoluzione – o si apre la strada alla violenza che una insostenibile ingiustizia inevitabilmente produce.

 

La “rivoluzione obbligatoria” oggi all’odg si chiama “decrescita”. Che non è, come vorrebbero far credere i nostri dinosauri, il ritorno al medioevo e all’austerità, sebbene la conquista di una diversa felicità.

 

(Un docente dell’Università di Tokio ha scritto recentemente un libro dal titolo “il capitale nell’antropocene”. Che proprio di cosa possa essere la felicità che non si fonda sull’ossessivo consumo di merci superflue parla. È diventato in Giappone un best seller: 500.000 copie, un record mai visto. Il sondaggio ha dimostrato che quasi tutti i lettori sono giovani).

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