di Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme
Il mese scorso Benyamin Netanyahu ha subito un’altra significativa battuta d’arresto oltre a quella interna quando di fronte alle proteste di massa in Israele, andate avanti per settimane (e non ancora cessate), ha dovuto annunciare la sospensione temporanea della profonda riforma della giustizia che ha in mente.
Un progetto autoritario e antidemocratico, volto a ridurre i poteri della Corte suprema e dei giudici a vantaggio dell’esecutivo, contro il quale però non ha manifestato la minoranza (palestinesi con passaporto israeliano, 21% della popolazione) vittime da 75 anni delle discriminazioni a danno dei cittadini non ebrei insite proprio nel “sistema democratico israeliano”. Quanto la sospensione costringerà Netanyahu e il suo governo di estrema destra religiosa a fare retromarcia sulla riforma giudiziaria e a rispettare la separazione dei poteri non è facile prevederlo. Il premier israeliano potrebbe, incurante delle proteste, rilanciare il suo progetto e portarlo a termine costi quel che costi.
Invece non potrà oscurare il fallimento diplomatico che ha scosso le fondamenta degli Accordi di Abramo, le intese di cui è stato protagonista nel 2020 – con l’aiuto dell’ex presidente Usa Donald Trump –, che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro paesi arabi: Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan.
Lo scorso 10 marzo Netanyahu era in Italia in visita ufficiale e rivolgendosi ad un gruppo di imprenditori oltre a magnificare le prestazioni dell’economia israeliana si è detto fiducioso di poter portare l’Arabia saudita, potenza economica a livello globale e il paese arabo più forte e influente, ad unirsi al più presto agli Accordi di Abramo grazie alla sua azione diplomatica. L’adesione saudita è fondamentale per il premier israeliano poiché quelli del 2020 non sono in realtà degli accordi di pace – i Paesi arabi coinvolti la guerra a Israele non l’hanno mai fatta sul serio -, piuttosto sono una alleanza militare e strategica contro l’Iran. In segreto Riyadh collabora intensamente con l’intelligence e gli apparati militari israeliani. Pertanto Netanyahu, tornato al potere alla fine del 2022 dopo una pausa di poco più di un anno, ha sempre pensato che l’ingresso nel cosiddetto club di Abramo del più potente degli Stati arabi fosse solo una questione di tempo, mesi forse un anno, malgrado la condizione posta da Riyadh di trovare una giusta soluzione per la questione dei palestinesi sotto occupazione militare. Invece solo due ore dopo il discorso fatto agli imprenditori italiani è giunta da Pechino la notizia della avvenuta riconciliazione, grazie alla mediazione cinese, tra Iran e Arabia saudita. I due Paesi sono avversari dal giorno della rivoluzione khomeinista ed espressione piena dello scontro tra sunniti e sciiti nell’Islam. Dal 2016 non avevano rapporti diplomatici e si sono combattuti in Medio oriente attraverso i rispettivi alleati regionali con le armi della politica e le armi vere, dal Libano allo Yemen.
L’accordo tra Teheran e Riyadh segna un cambiamento geopolitico significativo con implicazioni di vasta portata per il Golfo e i paesi confinanti con l’Iran. Potrebbe mettere fine all’escalation delle tensioni regionali e, forse, impedire che Israele lanci un attacco militare, con l’approvazione degli Stati uniti, contro le centrali atomiche iraniane. Netanyahu sostiene che Teheran sarebbe in grado di assemblare un ordigno atomico e di lanciarlo contro lo Stato ebraico (in Medio oriente però al momento l’unico paese che possiede in segreto testate atomiche, si dice tra 100 e 200, è proprio Israele che non ha mai firmato il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare). Se le relazioni tra Riyadh e Teheran miglioreranno come ripetono le due parti, le tensioni inizieranno a diminuire in modo significativo nel Golfo. Una prima cartina di tornasole per la riconciliazione sarà il suo impatto su Libano, Iraq, Siria e Yemen dove lo scontro irano-saudita per procura ha provocato guerre e il caos nelle economie e nelle politiche interne di quei Paesi. Una delle aree più critiche in cui verrà messo alla prova l’accordo di Pechino è lo Yemen, dove Iran e Arabia saudita hanno sostenuto le parti opposte negli otto anni della guerra che ha causato di una delle peggiori crisi umanitarie del mondo dopo che nel 2015 una coalizione guidata da Arabia saudita ed Emirati ha lanciato attacchi militari contro il movimento ribelle Ansarallah (Houthi) filoiraniano che aveva preso il controllo della capitale, Sanaa. Osservano gli sviluppi anche i governanti pakistani che sperano nella ripresa dei lavori sul Peace Gas Pipeline grazie ai nuovi rapporti tra Teheran e Riyadh e alla fine dell’opposizione saudita al progetto. E si potrebbe sbloccare anche la proposta di una rotta commerciale Russia-Iran-India - l’International North-South Transport Corridor (INSTC) – per collegare le ricche monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo a una serie di megaprogetti eurasiatici. Senza dimenticare che l’accordo di Pechino contribuirà a ridurre le attività di gruppi jihadisti sponsorizzati da Riyadh e a moderare i Talebani in Afghanistan che storicamente sono guardati con simpatia dalla monarchia Saud che li ha spesso impiegati per fare pressioni su Teheran.
Tutto questo e altri interessi indicano quanto l’accordo sia necessario per la stabilizzazione del Medio oriente e di porzioni di Asia. E, di conseguenza, per rendere l’Arabia saudita meno incline ad assecondare i piani militari di Tel Aviv contro l’Iran.
In Israele in via ufficiale si tende a ridimensionare la portata delle intese di Pechino e si prevedono “ostacoli” (posti da chi?) sulla strada della riconciliazione effettiva tra Teheran e Riyadh. Certo, nessuno può escludere che il principe ereditario saudita (e regnante di fatto) Mohammed bin Salman, spregiudicato in politica estera e noto per il suo disprezzo dei diritti umani e il dissenso interno, possa scegliere ugualmente di normalizzare le relazioni con Israele in tempi relativamente stretti. Ma nel frattempo crescono i timori di Netanyahu per un possibile fronte Cina-Iran-Arabia Saudita che potrebbe includere anche l’Iraq. Una simile alleanza mette ai margini Israele a livello regionale e minaccia l’auspicata espansione degli Accordi di Abramo vanificando gli sforzi di Israele per consolidare la coalizione regionale anti-Iran. I segnali in quella direzione non mancano. Il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen è stato costretto a cancellare il suo viaggio in Arabia Saudita in quello che è considerato dagli analisti un primo sviluppo negativo. Il governo Netanyahu sperava che i sauditi consentissero l’arrivo di Cohen per bilanciare l’accordo di Pechino ma Riyadh non ha concesso il via libera al ministro israeliano, nonostante le pressioni degli Usa. Le cose sembravano ben diverse fino a un mese fa.
L’Occidente, Stati Uniti in testa, era più vicino che mai alle posizioni di Israele sull’Iran e l’atteso rilancio dell’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano (Jcpoa) sembrava ormai saltato per sempre come desiderava Tel Aviv. A far naufragare la diplomazia nucleare sono state anche le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini sotto la custodia della polizia e la continua repressione dei manifestanti. Così come la presunta assistenza militare iraniana alla Russia contro l’Ucraina. Tutti questi “risultati” per Israele sono stati vanificati quando gli Stati Uniti e l’Europa si sono congratulati, seppur tiepidamente, con l’Arabia Saudita e l’Iran per il rinnovo delle loro relazioni diplomatiche. Alcuni esperti ritengono che l’Arabia Saudita sia giunta alla conclusione che Israele non è abbastanza forte per abbattere il programma nucleare iraniano, quindi ha scelto altre strade per proteggere la propria sicurezza.
L’effetto domino degli Accordi di Abramo con i Paesi arabi e islamici in fila per normalizzare le relazioni con Israele immaginato da Netanyahu non c’è stato. E la questione palestinese, nonostante le ambiguità e le ipocrisie dei regimi arabi, resta centrale in Medio oriente contro gli auspici del premier israeliano. Gli stessi Emirati, che pure sono i più convinti sostenitori degli Accordi di Abramo, ora sono freddi di fronte alle politiche del governo israeliano contro i palestinesi (e non solo). Il principe Mohammed Bin Zayed ha smesso da tempo di nascondere la sua rabbia per il comportamento del governo Netanyahu e con un gesto provocatorio ha stanziato tre milioni di dollari per famiglie palestinesi rimaste senza casa per il pogrom messo in atto a fine febbraio dai coloni israeliani contro il villaggio cisgiordano di Huwara. Gli Emirati, che hanno firmato un accordo di libero scambio con Israele, sono anche preoccupati per i riflessi della riforma giudiziaria pianificata da Netanyahu sul commercio tra i due Paesi che attualmente si aggira intorno ai 2 miliardi di dollari all’anno. Abu Dhabi resta alleata di Tel Aviv ma ha già sponsorizzato tre risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite insieme ai palestinesi di condanna delle politiche israeliane. E non va sottovalutato l’impatto che hanno avuto nelle capitali arabe vicine a Israele le dichiarazioni del ministro Bezalel Smotrich, stretto alleato di Netanyahu, che il mese scorso ha negato l’esistenza dei palestinesi come popolo.
L’analista arabo Mohammed Abu Tir qualche giorno fa ha scritto “Dobbiamo ringraziare gli estremisti israeliani, che ci ricordano la verità dietro il progetto israeliano, gli abusi sui palestinesi e il problema dell’occupazione”. In Israele si pensa che Netanyahu non sappia cosa fare in questa nuova fase che, tra le altre cose, vede anche un raffreddamento delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Stati Uniti.
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