L’Indonesia e la nascita del mondo moderno

Revolusi - David Van Reybrouck Edizioni: Feltrinelli, 616 pp.

di Franco Cavalli

 

L’Indonesia è un paese di cui si parla sorprendentemente poco. Eppure, con i suoi circa 5000 chilometri è l’arcipelago più grande al mondo.

È il quarto paese più popoloso con i suoi quasi 300 milioni di abitanti, lì vive anche la più grande comunità mussulmana. Forse dell’Indonesia si parla poco perché lì sono capitati tre eventi che hanno determinato il corso della storia mondiale degli ultimi 70 anni, cioè dalla fine della 2ª Guerra Mondiale. Qualche lettore a questo punto potrebbe ribattermi “ma se fosse così, se ne parlerebbe a iosa”. Beh, no: il fatto è che in tutti questi tre eventi, l’Occidente ha fatto una cattivissima figura e quindi… Ma andiamo con ordine.

 

David Van Reybrouck è universalmente conosciuto per il suo libro Congo, pubblicato da Feltrinelli nel 2014, tradotto in ben 14 lingue e che è stato un caso editoriale internazionale, che ha fruttato all’autore una serie di premi. Dopo sette anni di lavoro il giornalista belga propone ora Revolusi, una vasta indagine su quelle che si possono definire come le “radici indonesiane” del mondo moderno.

 

Come nel libro precedente, anche qui il metodo di lavoro dell’autore si situa al confine tra il giornalismo e la narrativa, in quanto il libro è stato costruito in oltre sette anni di inchieste sul campo, attraverso centinaia di interviste, spesso realizzate presso gli ultimi sopravvissuti (talora centenari) di quegli eventi. Il libro coniuga quindi una documentazione straordinaria con una narrativa, dove spesso il reportage assume i toni del racconto ed i testimoni reali assurgono a protagonisti di un romanzo. Il libro è stato recentemente presentato al Salone del Libro a Torino e Guido Caldiron lo ha recensito con una bella intervista all’autore nel Manifesto (20.05.2023). Da quell’intervista ho tratto alcuni dei giudizi, anche perché il libro, oltretutto voluminoso, è apparso in libreria solo un paio di settimane fa e quindi non ho ancora finito di leggerlo.

 

Ho potuto basarmi però anche su molti commenti che mi ha fatto mia moglie che ha letto l’edizione originale olandese: il libro ha difatti suscitato furibonde polemiche nei Paesi Bassi, anche perché lì fino a poco tempo fa la maggioranza della popolazione era convinta che i quasi 350 anni di dominio coloniale olandese (1600-1945) fossero stati una benedizione per gli indonesiani. Invece, come per tutti i colonialismi europei, è stata una storia terribile, non solo per lo sfruttamento bestiale, ma perché costellata da un’infinità di genocidi.

 

La Revolusi porta a Bandung

Secondo uno studio delle Nazioni Unite, su una popolazione di 68 milioni, in Indonesia durante la 2ª Guerra Mondiale sono morti almeno quattro milioni di persone: per numero di morti l’Indonesia fu il quinto paese al mondo, dopo l’Unione Sovietica, la Cina, la Germania e la Polonia e prima del Giappone. Fu però addirittura il primo per quanto riguarda i morti civili, che rappresentarono più del 99%, che morirono di fame e di stenti come conseguenza dello scontro militare-economico tra i Paesi Bassi ed il Giappone. Questo spiega la motivazione che spinse la popolazione a raggiungere a qualsiasi prezzo l’indipendenza, appena terminata la guerra. “Liberi! Da tutto!” ha urlato un 95enne, a cui l’autore del libro aveva chiesto le sue motivazioni per prendere allora le armi.

 

L’Indonesia fu infatti la prima realtà nazionale a proclamare la propria indipendenza all’indomani della 2ª Guerra Mondiale: il 17 agosto del 1945, due giorni dopo la fine del conflitto con la resa del Giappone. Quest’avvenimento ebbe un’enorme risonanza in tutto il Sud del mondo. Però ci sarebbero voluti altri quattro anni e mezzo di lotte, di ribellioni e di centinaia di migliaia di morti, prima che nel dicembre del 1949 si firmasse poi l’accordo di trasferimento di sovranità dai Paesi Bassi al governo autoctono indonesiano. Nella già citata intervista al Manifesto, Van Reybrouck afferma “e dieci anni più tardi sarà sempre l’Indonesia ad indicare al resto del mondo come e perché attuare una vera decolonizzazione. Perciò credo si possa parlare di un vero e proprio “modello indonesiano” che è servito poi da ispirazione ad altri”.

 

L’autore qui si riferisce al secondo avvenimento eccezionale, cioè alla Conferenza di Bandung (1955) che pose l’Indonesia al centro della strategia dei cosiddetti paesi “non-allineati” e, oltre all’organizzatore Sukarno, basterebbe citare Nehru, Nkrumah, Nasser e Tito tra i principali leader presenti a Bandung, che lanciarono questo movimento dei paesi “non-allineati”, per capire l’importanza dell’avvenimento, che avrebbe poi ispirato altri leader, da Martin Luther King a Nelson Mandela. Una giornalista, che durante la Conferenza di Bandung lavorò come interprete, riassume così il suo vissuto: “L’atmosfera durante quegli incontri era davvero meravigliosa. C’era quella volontà del tipo: noi non abbiamo bisogno dell’Occidente, possiamo gestire da soli il nostro sviluppo”. Dopo quella prima conferenza, se ne sarebbe dovuta svolgere un’altra, addirittura a New York, nella zona del Bronx, per sottolineare il collegamento con la situazione degli afro-americani. Ma non se ne fece mai nulla.

 

L’Occidente reagì in modo molto efficace. I pionieri del movimento afro-asiatico furono eliminati tutti entro il 1965 (salvo Tito: la Jugoslavia sarebbe stata smembrata più tardi): tutti deposti, talora uccisi o, nel migliore dei casi, spodestati con “elezioni truccate”. L’evento più drammatico avvenne di nuovo in Indonesia, anche se l’autore ne parla solo nelle ultime pagine del libro, in quanto ne rappresenta solo l’epilogo e non il tema centrale. Nell’ottobre del 1965 ufficiali indonesiani addestrati negli USA scacciarono Sukarno, misero al potere il generale Suharto, che istaurò una dittatura che sarebbe durata 32 anni, il tutto con il cosiddetto massacro di Giacarta, che costò la vita a circa un milione di progressisti, cinesi e comunisti.

 

Non per niente da allora si parla del “metodo Giacarta”, ben descritto dal grande giornalista americano Bevins in un libro che abbiamo recensito in queste colonne (Quaderno 36: pag. 25, 2022). Il “metodo Giacarta” venne poi ripetuto un po’ dovunque: Bevins calcola con un totale di circa 20 milioni di morti. Anche il nome in codice del colpo di stato contro Allende si chiamava “piano Giacarta”, come il piano di sterminio da parte della dittatura brasiliana.

 

Van Reybrouck conclude citando ancora Cisca, la giornalista che aveva da prima magnificato lo spirito di Bandung, che dopo molte ore con un viso triste conclude “alla fine non siamo mai diventati indipendenti. Pensavamo di poter rendere più giusta la faccenda, ma avevamo tre secoli di svantaggio. Allora la lotta si fa ardua. La controparte era più forte, il sistema capitalistico si è insediato ovunque. Ma finché questo sistema andrà avanti, tutto il mondo verrà distrutto e tutto l’ambiente devastato”. Non possiamo sicuramente darle torto.

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