di Werner Carobbio - Inedito
Guglielmo Canevascini, storico leader del Partito socialista ticinese, morì il 20 luglio del 1965, a settantanove anni. Per ricordare la figura dello scomparso, Libera Stampa e il PST, nel 1980, pensarono di raccogliere una serie di testimonianze fra coloro che lo avevano conosciuto.
Il progetto non andò in porto, ma Werner Carobbio, allora consigliere nazionale, non mancò di inviare il suo contributo, nell’agosto dell’ottanta, rimasto inedito. Cogliamo l’occasione di pubblicarlo ora, per ricordarne la figura con un testo illuminante su un periodo cruciale della storia socialista ticinese.
(Fabio Dozio)
Il ruolo di Guglielmo Canevascini nel movimento operaio ticinese, sindacale e politico, non ha certo bisogno di dimostrazioni. E ciò anche se, purtroppo, a tutt’oggi, manca ancora un qualsiasi tentativo di seria analisi storica di quanto egli ha fatto e rappresentato per oltre 50 anni per il Partito Socialista Ticinese, per i sindacati della Camera del lavoro, per il Cantone. Il solo avvio di tale analisi è e rimane, per intanto, il libro di Guido Pedroli su “Il socialismo nella Svizzera italiana”, che però concerne solo una minima parte dell’opera di Canevascini, fino all’entrata in governo.
È un dato di fatto che attorno alla personalità politica di Canevascini ruotano gli avvenimenti che videro l’affermarsi del movimento operaio ticinese e del PST come forza alternativa ai partiti storici prima, come – per quanto concerne il PST – partito di governo poi, le lotte sindacali e politiche della sinistra nel paese, i problemi, le tensioni e i tentativi di rinnovamento degli indirizzi di un partito, il PST, che con la sua presenza governativa, di cui il Canevascini è stato il vessillifero per diversi decenni, aveva accentuato, con il passare degli anni, la pratica della collaborazione e degli accordi di vertice a scapito del lavoro nel paese. E questo è particolarmente vero per gli anni dopo il 1955.
Così come prima del ’20 Canevascini fu l’uomo di punta, l’agitatore e il militante delle lotte sindacali ticinesi e della crescita politica socialista, dal 1922 in avanti l’uomo della svolta verso la partecipazione governativa, negli anni trenta e seguenti il vessillifero della lotta antifascista e dopo la guerra l’artefice, per il PST, della così detta “intesa di sinistra” con i liberali-radicali, a partire dal 1955 fin su al 1963 egli si trovò al centro – e non poteva essere diversamente – di quello che fu il problema centrale del PST in quegli anni: la preparazione e la realizzazione del cambio della guardia ai vertici del PST e in misura diversa del movimento sindacale.
Concretamente era poi il problema della sua stessa sostituzione in Consiglio di Stato che si era posto da tempo, ma in modo sempre più preciso a partire da quegli anni. E puntualmente attorno a questo problema – nel 1955 e nel 1959 e 63 – si è sviluppato il discorso sull’indirizzo politico della socialdemocrazia ticinese e per riflesso – soprattutto dopo gli anni 60 – di quella svizzera e del rinnovamento politico e organizzativo del PST. E così, nei congressi del 54 e 59 e prima all’interno del Comitato Cantonale è con Canevascini, come leader effettivo del Partito, che avvenne il confronto – scontro su quei temi. Ma se prima degli anni 60 il confronto per finire non andò oltre alcuni tentativi, non riusciti, di andare oltre il puro e semplice cambiamento di alcuni uomini, dopo il 1959 la situazione cambia notevolmente e la crisi latente nel PST esplode sempre più nettamente, per precipitare nel 1963 dopo “l’affronto” della non rielezione di Canevascini in Gran Consiglio.
In quel momento all’interno del PST, grosso modo, si erano andate delineando tre posizioni. Da un lato il gruppo dirigente subentrato, dopo la morte di Piero Pellegrini, a Canevascini e facente capo all’allora consigliere di stato Federico Ghisletta e all’allora presidente del PST Elmo Patocchi. Dall’altro il gruppo che chiamerò, per comodità, dei “canevasciniani”, con Canevascini stesso, Benito Bernasconi e altri. E da ultimo il gruppo sorto attorno alla Federazione Giovanile Socialista Ticinese.
Il 1963 è l’anno, per il PST, del Convegno dissidente (a quello del Ceneri) del Generoso (oratori lo stesso Canevascini, l’avvocato Maino e chi scrive), della creazione della speciale Commissione d’inchiesta sui risultati elettorali del 1963 (commissione Rampini).
È attorno a questi fatti che si sviluppa lo scontro all’interno del PST che sfocerà – nel Congresso del novembre 1966 a Bellinzona – quando Canevascini era ormai già scomparso, nella rottura dell’“intesa di sinistra” con i liberali – radicali, nell’adozione del progetto di politica d’autonomia la cui successiva non applicazione da parte della maggioranza del vertice PST di allora porterà, nel 1969, alla scissione e alla nascita del PSA.
E in questa fase, una volta ancora, Canevascini gioca un ruolo importante in quella che, lo si può dire senza falsa modestia, costituirà il più radicale tentativo di rinnovamento della linea del PST e in generale della linea socialdemocratica. Un ruolo che egli svolgerà, fino alla sua improvvisa scomparsa, essenzialmente all’interno della Commissione speciale creata per affrontare i problemi emersi nel 1963 per dare un seguito al rapporto della Commissione d’inchiesta Rampini. In quella Commissione le tre posizioni richiamate sopra erano tutte rappresentate, anche se non in modo paritetico. Compito della Commissione era quello di presentare delle proposte concrete per il rinnovamento ideologico, politico e organizzativo del PST.
Fin dall’inizio due furono le posizioni di fondo che si profilarono all’interno della Commissione: quella portata avanti dai rappresentanti “giovanili” (Martinelli, Carobbio, Pult, Galli e Ongaro) che postulava un rinnovamento radicale d’indirizzi ideologici e politici oltre che organizzativi. Quella sostenuta dal gruppo dirigente di allora (Patocchi – Ghisletta) che pur non negando la necessità di alcune innovazioni difendeva sia la scelta della collaborazione con i liberali, sia l’indirizzo politico tradizionale (essenzialmente istituzionale e piccolo riformista) del PST. In mezzo, da un lato i “canevasciniani” che con Canevascini anzitutto avvertivano l’esigenza di un rinnovamento ideologico e organizzativo, mentre erano più reticenti sui rinnovamenti degli indirizzi politici e in particolare sul rinnovo delle alleanze con i borghesi e quindi della collaborazione istituzionale con gli stessi, e dall’altro altri compagni (Agostinetti, Bianchi, ecc.) che avevano posizioni proprie e cercavano di svolgere un ruolo di mediazione.
Non è, in questa sede, il caso di analizzare storicamente quelle discussioni e i lavori di quella Commissione, anche perché non ritengo di essere, in quanto parte in causa, il più adatto.
Semplicemente ho richiamato quei fatti per cercare di tratteggiare, così come l’ho vissuto io, il ruolo svolto in quegli anni (63/65) e all’interno di quella Commissione da Canevascini.
Come detto sopra Canevascini, tra gli uomini del vecchio gruppo dirigente del PST, era colui che, in quella fase, meglio e più lucidamente di altri avvertiva l’esigenza di un rinnovamento ideologico e organizzativo del Partito. È con lui che, di conseguenza, si intreccia e si sviluppa il confronto sulle tematiche connesse a tale rinnovamento.
Se all’inizio egli era partito con evidenti intendimenti di semplici innovazioni di potere, quali la sostituzione degli uomini che si occupavano in quegli anni le varie posizioni nel Partito (presidenza, segretariato, direzione del giornale, ecc.) e quindi la riaffermazione del suo ruolo uscito “offeso” dai risultati elettorali del 1963, egli è andato gradatamente aprendosi alle tematiche ideologiche e politiche avanzate dalla componente “giovanile” e di sinistra nei documenti che i suoi rappresentanti hanno via via presentato in Commissione.
Così, se all’inizio per i “canevasciniani” il rinnovamento sembrava tradursi essenzialmente nell’operazione adozione di un nuovo statuto del Partito e di ridistribuzione di alcune posizioni di potere all’interno, in seguito, soprattutto per la scelta attiva dello stesso Canevascini, si avviò e si approfondì il discorso sia sul rinnovamento ideologico, che su quello politico e organizzativo. E Canevascini diede un suo contributo, di esperienza e di critica, al dibattito all’interno della Commissione che doveva poi sfociare nel 1965 – dopo la sua scomparsa – nel documento “per una politica di autonomia”.
Ricordo a questo proposito i confronti con lui sui temi della prassi socialdemocratica; egli condivise a più riprese molte delle critiche da noi formulate, soprattutto all’indirizzo della politica del PSS, dimostrandosi per contro più restio – e non poteva essere diversamente – ad accettare le critiche sulla stessa pratica socialdemocratica del PST. Comunque avvertiva chiaramente – e in più occasioni si schierò con le proposte della sinistra contro quella del gruppo dirigente di allora – l’esigenza da un lato di un rinnovamento dell’azione del Partito nel paese e nelle istituzioni all’insegna di una scelta più di sinistra e meno istituzionale e dall’altra la necessità di un rinnovamento e di un potenziamento dell’organizzazione del Partito.
Si può ben dire, a ragione veduta che – soprattutto nei primi mesi del 1965 – nella Commissione si era andata delineando una certa convergenza fra le posizioni di Canevascini e quelle della sinistra. E in questo senso egli stava, oggettivamente, dando un suo ulteriore e non trascurabile contributo allo sviluppo di nuove idee e nuove forze all’interno della sinistra e per il rinnovamento politico e organizzativo del PST. Certo non mi sfuggiva allora come non può sfuggirmi ora come in tale posizione confluisse in lui anche un calcolo tattico: appoggiare la sinistra per quell’operazione di “potere” di cui si diceva sopra. Ma questo aspetto tattico era, a mio parere, solo una componente nel ruolo da lui svolto nella Commissione. Un aspetto tutto sommato logico e naturale per un uomo di lunga esperienza politica come lui. Ma mi è sempre sembrato di avvertire in lui anche la lucidità dell’uomo politico che sa rendersi conto dei mutamenti della realtà e avvertire quindi l’esigenza di innovazioni e nuovi orientamenti. Forse proprio in quegli anni – ma si tratta di una mia valutazione personale certo molto discutibile – avvertiva l’esigenza di un rinnovamento di uomini nel Partito che forse in passato non sempre aveva favorito e sviluppato a sufficienza.
Su due aspetti però, nonostante tutto, rimasero in quegli anni delle profonde divergenze con Canevascini. Sull’importanza di un inserimento dell’azione del PST e della sua esigenza di rinnovamento a livello nazionale. Realtà, quest’ultima, di cui egli sembrava non occuparsi molto, forse realisticamente conscio della limitatezza delle forze del PST ticinese nell’ambito della socialdemocrazia svizzera di allora, ancora più di oggi invischiata nella collaborazione con i partiti borghesi. E sul problema di una politica di opposizione e rottura degli accordi con i partiti borghesi nel Ticino, dell’intesa di sinistra con i liberali - radicali in particolare. Pur essendo d’accordo sulla necessità di un’azione del Partito più decisa e dinamica si era dimostrato sempre molto prudente sulle scelte concrete. La morte gli ha impedito di partecipare alla fase finale di quella discussione, che di fatto prese avvio, forse anche accelerata dalla sua scomparsa, nell’autunno del 65 per sfociare nel Congresso del novembre 66, che effettivamente si pronunciò per la rottura dell’“intesa di sinistra”.
Ma a parte ciò, e tenuto conto dei limiti che la sua lunga attività politica ponevano, è indubbio che Canevascini negli anni 63/65, gli ultimi della sua vita, giocò un ruolo una volta ancora di primo piano nella discussione sulla crisi della socialdemocrazia ticinese e nel tentativo di un suo rinnovamento ideologico – politico e organizzativo del PST. E se il suo apporto fu interessante nella direzione della necessità di un rinnovamento, che poi non ci fu, egli contribuì anche a farci capire i limiti della possibilità di tale rinnovamento, soprattutto sul piano ideologico e dell’indirizzo politico.
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