di RedQ
Palestina - Per cercare di capire meglio quanto sta capitando, abbiamo pensato di porre alcune domande a due grandi esperto del Medio Oriente.
Aldo Sofia, ben conosciuto dal nostro pubblico e che da anni si occupa del tema e Chiara Cruciati, vice-direttrice del Manifesto, che soggiorna molto spesso a Gerusalemme e che conosce perfettamente la situazione (come pure quella del Rojava, su cui ha riferito qualche anno fa ad una serata organizzata dal FA).
Quasi in tutti i commenti si è detto che Hamas avrebbe deciso di lanciare l’attacco il 7 ottobre per mandare all’aria le trattative tra Israele e le monarchie del Golfo. È anche la tua valutazione?
Chiara Cruciati
La normalizzazione tra Israele e paesi arabi – Emirati, Sudan, Marocco e Bahrain – e il possibile allargamento del patto di Abramo all’Arabia saudita hanno amplificato nelle diverse leadership palestinesi, laiche e islamiste, una sensazione di abbandono già radicata. La scomparsa della questione palestinese dall’orizzonte di una parte consistente del mondo arabo non è nuova, ma gli accordi di normalizzazione ne hanno certificato l’esistenza. Sicuramente uno degli obiettivi di Hamas, con l’attacco del 7 ottobre, è stato ricordare non solo a Israele ma al mondo la persistenza di un’assenza: quella della soluzione della questione palestinese, del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione di un intero popolo.
Nei fatti, Hamas ha al momento raggiunto il proprio scopo: Riyadh ha congelato il dialogo con Israele che, se sarà ripreso, si muoverà su un tavolo diverso. Ma soprattutto ha risvegliato nei popoli arabi una dissidenza palese: le piazze arabe non hanno mai digerito la normalizzazione con Israele e lo hanno dimostrato in queste settimane esplicitando il proprio dissenso e costringendo i rispettivi regimi ad assumere posizioni dure, seppur a parole.
Aldo Sofia
Che si tratti di una motivazione di peso non vi è dubbio. Qualsiasi processo di distensione fra lo Stato ebraico e le monarchie petrolifere del Golfo è (o era) una pessima notizia per Hamas, e per il suo sponsor ideologico, l’Iran, che un esponente del governo islamista di Gaza ha pubblicamente ringraziato due giorni dopo l’attacco del 7 ottobre precisando “tutto questo è stato possibile grazie al sostegno di Teheran”. E’ vero che negli ultimi mesi l’Arabia Saudita, pivot del mondo musulmano sunnita anche perché custode di due dei tre luoghi santi dell’Islam (la Mecca e Medina), aveva riaperto la porta del dialogo con gli eredi di Khomeini; ma questi ultimi l’hanno accettato più che altro in termini esplorativi e non certo per incoraggiare i sauditi alla pace con Israele: cioè quell’ “entità sionista” che anche dopo il 7 ottobre la guida spirituale iraniana, Alì Khamenei, ha detto che occorre cancellare dalla carta geografica della regione. Va ricordato che la teocrazia iraniana (che in realtà non vuole lo scontro militare diretto con la potenza militare israeliana) affronta una situazione interna problematica dopo l’inizio della vasta contestazione al regime seguita all’uccisione della giovane curda Masha Amini da parte della ‘polizia religiosa’; e soprattutto che ha operato per attivare una sorta di “mezza luna” sciita che agisce anche per Teheran, che dalla capitale iraniana si estende a Bagdad, al Libano degli Hezbollah, a Gaza (pur non essendo i palestinesi della Striscia sciiti), allo Yemen. Una rete che gli garantisce influenza regionale, e che un consolidamento e un allargamento degli ‘Accordi di Abramo’ (addirittura con l’inserimento della monarchia saudita) isolerebbe e indebolirebbe.
Tuttavia, non si tratta dell’unica ragione dell’offensiva anti-ebraica di sei settimane fa. Hamas si è mossa sia perché l’avvicinamento fra Stato ebraico e “petrolcrazie” arabe avveniva senza il coinvolgimento palestinese, sia perché non poteva accettare di mettere nel cassetto i suoi piani strategici solo in cambio di finanziamenti del Qatar, sia per riportare la questione palestinese al centro della scena medio-orientale, sia per imporsi definitivamente alla guida del movimento palestinese scavalcando i laici di “Fatah”. Obiettivi che, considerata la violentissima reazione di Israele e della comunità araba e internazionale, sono ancora molto incerti nei suoi esiti. Sicuramente Hamas ha vinto la guerra della propaganda, dimostrando la vulnerabilità dello Stato ebraico che non aveva avuto tanti morti civili in nessuna delle guerre dal 1948 ad oggi. Ma bisogna vedere se a questa vittoria potrà seguire un successo politico-strategico. Oppure se Hamas si è davvero ‘suicidata’, come molti sostengono, e non si sa da chi verrà sostituita a Gaza e nei piani dell’Iran.
Quant’è vero che la crescita, anche politica, di Hamas sia stata ottenuta e aiutata attivamente da Netanyahu, che ci vedeva un’alternativa all’ANP, oltre che una divisione politica definitiva tra Gaza e i Territori occupati?
Chiara Cruciati
L’accusa mossa alla leadership israeliana, incarnata da quasi due decenni dal Likud e da Benyamin Netanyahu, si fonda su fatti reali, a partire da dichiarazioni dello stesso Netanyahu, reiterate negli ultimi anni, sulla necessità israeliana di utilizzare Hamas come strumento di indebolimento delle leadership laiche palestinesi. Si tratta di una strategia di lungo periodo, iniziata negli anni Ottanta, e condivisa da Tel Aviv con diverse capitali occidentali operative in Medio Oriente. Nello specifico, l’obiettivo israeliano è sempre stato quello di minare l’unità palestinese, prima “assassinando” politicamente l’Olp, poi marginalizzando l’Anp attraverso la sua trasformazione in un asset amministrativo del regime di occupazione. La crescita di Hamas è stata frutto sì di fattori diversi, tra cui la corruzione interna allo spettro politico palestinese e il crollo della sinistra, ma anche del ruolo attivo di Israele che ha sistematicamente eliminato qualsiasi alternativa, attraverso omicidi mirati o incarcerazioni politiche.
Aldo Sofia
La co-azione fra Israele e Hamas è in realtà di vecchia data. Una quarantina di anni fa, fu proprio Israele a favorire la nascita del movimento islamico a Gaza. A Tel Aviv c’era la convinzione che fosse contrapporre un forte movimento religioso ai laici di Fatah e quindi all’Autorità Nazionale Palestinese. Ai loro occhi bastava portare i palestinesi nelle moschee, consentire ad Hamas di organizzare un proprio sistema di assistenza sociale (centri medici, mense, scuole, attività sociale), così spiazzare la vecchia guardia laica dell’OLP. Un calcolo rivelatosi pericoloso e clamorosamente sbagliato. La nascita e la crescita (fino all’apparizione dello Stato Islamico) dell’Islam politico nella sua forma più radicale ha via via alimentato il profilo jihadista della lotta politica di Hamas (anche se vi sono studiosi che nella sua Carta, soprattutto nella seconda versione aggiornata, che indica pur ribadisce l’obiettivo dell’annullamento di Israele, vedono spazi di ambiguità che non escludono in modo assoluto un’evoluzione per un negoziato). Soprattutto i 14 anni di governi di Benjamin Netanyahu - il quale, non va dimenticato, è figlio di uno stretto collaboratore di Jabotinsky, il leader del “revisionismo sionista” teorico di un nazionalismo esasperato ed espansivo – hanno operato con molto impegno per consolidare la frattura inter-palestinese, per indebolire il più possibile la prospettiva della “soluzione dei due Stati”, prospettiva che “Bibi” ha pubblicamente osteggiato. Ancora un paio di settimane prima del 7 ottobre, ad alcuni collaboratori che gli chiedevano perché fosse accettabile per Israele che il Qatar finanziasse Hamas, aveva ribadito in sostanza che l’esistenza di Hamas era funzionale alla sua strategia anti-palestinese, resa ancora più solida e visibile con la presenza nella sua ultima coalizione di due esponenti della destra-religiosa più radicale e annessionista, rappresentanti dei coloni in costante e aggressiva crescita nei Territori.
Infine, da tempo si poteva notare che il “re di Israele”, come i suoi fan definiscono Netanyahu, e i radicali di Hamas fossero in qualche modo legati uno agli altri: “Bibi” riteneva che Israele avesse comunque un vantaggio militare più che sufficiente per le rappresaglie anti-Hamas, costruendosi così la fama di miglior garante della sicurezza di Israele. Un altro tragico errore, che probabilmente pagherà nell’immediato dopo-guerra.
La micidiale risposta di Israele, che sta radendo al suolo il Nord di Gaza con un numero enorme di morti civili, ha fatto apparire un movimento di protesta impressionante: pensiamo al quasi un milione di manifestanti a Londra. Molto nuovo è poi il sostegno nei campus universitari americani e nella sinistra del partito democratico, per cui a differenza di quanto c’è stato finora potrebbe esserci una spaccatura netta tra Repubblicani (pro-Israele nel loro oscurantismo) e Democratici, che si stanno muovendo, salvo la vecchia guardia, verso un sostegno ai palestinesi. Come lo valuti?
Chiara Cruciati
La mobilitazione globale a favore della Palestina, di Gaza e di una soluzione politica ha evidenziato in maniera plastica la distanza profonda tra popoli e governi, in particolare quello statunitense e quello occidentale. Se negli anni Sessanta e Settanta l’esistenza di una sinistra globale e internazionalista aveva reso la Palestina il simbolo di una più ampia lotta contro il colonialismo del sud del mondo, nei decenni successivi la scomparsa dei grandi movimenti aveva minato anche la solidarietà con il popolo palestinese e di conseguenza strappato i legami con la politica palestinese, sia partitica che di base. Oggi la questione torna centrale anche in assenza di una rete strutturata (come fu ad esempio il movimento no global di inizio millennio), grazie alla presenza di una serie di reti operative sui diversi territori – movimenti studenteschi, sindacati di base, accademia, associazionismo – che hanno compreso bene il significato del regime israeliano, un regime di apartheid secondo organizzazioni internazionali, israeliane e palestinesi. La distanza con le leadership occidentali è esplosivo e probabilmente inficerà sui processi elettorali prossimi, negli Stati uniti e in Europa, dove le coalizioni di centro e di centro-sinistra hanno abdicato al proprio ruolo di tutela del diritto internazionale.
Questo è il cuore, credo, dell’attuale oceanica mobilitazione pro-palestinese in tutto il mondo: spesso si guarda a New York e Londra, ma a essere piene sono anche le piazze del cosiddetto sud globale. Che dall’attuale offensiva militare contro Gaza ha tratto una lezione, importante e terribile: il diritto internazionale è colonizzato, è strumento di un pezzo di mondo per mantenere l’altra metà in uno stato di subordinazione. La delegittimazione dell’Onu e della legge internazionale è distruttiva e si inserisce all’interno di un processo di neocolonialismo indiretto tuttora vigente. L’Occidente sta dicendo all’Oriente e al Sud del mondo che le regole non sono uguali per tutte.
Aldo Sofia
Si tratta di un movimento di protesta che può apparire imprevisto, anche nelle sue dimensioni. L’antisemitismo affiora in molte manifestazioni, e non solo perché sia in Europa sia negli Stati Uniti. La sorpresa per una tale mobilitazione può fino a un certo punto sorprendere perché ormai da tempo la questione palestinese è stata derubricata a livello politico, internazionale, e mediatico. Nelle cancellerie occidentali è stata a lungo praticamente cancellato dall’agenda, e in sostanza, soprattutto negli anni di Trump alla Casa Bianca, ma anche in precedenza e con l’attuale amministrazione americana, ai governi israeliani e in particolare a quelli a guida Netanyahu è stata colpevolmente fornita una sorta di delega per come affrontare i drammatici problemi dell’occupazione militare e della colonizzazione. Eppure la sensibilità popolare sul tema non si è spenta, anzi in qualche modo proprio gli … eloquenti silenzi e la paralisi diplomatica di vari decenni hanno dimostrato che la consapevolezza delle opinioni pubbliche era in realtà pronta a imporsi. Nel mondo arabo, le manifestazioni di massa hanno messo in evidenza che, di fronte alla cinica indifferenza di quasi tutti i regimi della regione, la questione palestinese, con tutto il suo carico di ingiustizie, e anche di errori della sua lacerata e incapace leadership (che nel caso di Fatah è diventata collaborazione con l’occupante), è ancora viva. I ‘rais’ moderati e dialoganti con Israele non possono non tenerne conto, e non si può escludere che la sproporzione della ‘vendetta’ israeliana porti alla crisi degli “Accordi di Abramo”.
Non so quanto e come il serrato dibattito all’interno degli Stati Uniti (addirittura la contestazione della politica di Biden verso lo Stato ebraico da parte di ampi settori dell’amministrazione e del corpo diplomatico americani) potrà evolvere. Biden, in difficoltà nei sondaggi, non può ignorare il confronto all’interno del suo stesso partito e del suo elettorato, e infatti cerca di influenzare la politica israeliana quantomeno in senso più moderato, non ottenendo granchè, dalle richieste di tregue umanitarie alla raccomandazione di evitare una nuova ’occupazione territoriale di Gaza alla richiesta di rimettere al centro della scena e aiutare l’OLP a ridiventare co-protagonista per la ripresa di una trattativa dopo averla depotenziata e mortificata per tre decenni. Il capo della Casa Bianca, consapevole come tutti i suoi predecessori del peso dell’elettorato ebraico, incassa per ora una serie di netti rifiuti, in una fase di incomprensione che non ha precedenti fra Usa e il suo alleato mediorientale, se non nella lontana crisi di Suez, quando insieme Stati Uniti e Unione Sovietica imposero di fermare l’offensiva militare franco-britannica-israeliana. per la ‘liberazione’ del Canale dalla nazionalizzazione decisa di Nasser. Mentre un ritorno di Trump, o comunque dei repubblicani, alla Casa Bianca sarebbe vista con favore a Tel Aviv.
Prima di questa crisi, la prospettiva dei due Stati, con l’apartheid ormai consolidata nei territori occupati, era già morta. Ora è sepolta. Quale può essere una prospettiva per il futuro? M. Barghouti come Mandela palestinese?
Chiara Cruciati
Al momento non è semplice immaginare il futuro, anche perché non è chiaro – nemmeno a Israele – cosa significhi “vincere la guerra” e quale sarà lo status quo successivo all’attacco su Gaza. Il trauma collettivo rappresentato dal 7 ottobre ha colpito due popoli: quello israeliano che si è come risvegliato da un lungo sonno, costretto a percepire e a riconoscere l’esistenza di un’occupazione lunga sette decenni che ha sempre tentato di negare; e quello palestinese che deve costantemente affrontare il tentativo di negazione di sé e della propria narrazione. Dallo choc, doppio, possono emergere prospettive future molte diverse, che dipenderanno in gran parte da chi – all’interno della società israeliana e di quella palestinese – sarà in grado di assumere la gestione del dopo, superando nazionalismi religiosi che hanno incancrenito la questione.
Se la soluzione a due stati era morta già il giorno dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993, quella a uno Stato unico democratico è una sfida che oggi appare impossibile visto il livello di imbarbarimento e disumanizzazione dell’altro che è stato raggiunto e che è incendiato, dentro Israele, dalla repressione durissima contro i palestinesi cittadini israeliani. D’altra parte, però, dallo choc del 7 ottobre potrebbe nascere una nuova consapevolezza, la presa di coscienza che una soluzione politica sia la sola via percorribile. Anche alla luce di un dato significativo: se nel 1948 Israele nacque grazie alla Nakba, all’espulsione di quasi un milione di palestinesi, l’80% della popolazione dell’epoca, oggi governa su un territorio su cui vivono sei milioni di ebrei e sei milioni di palestinesi. Il sionismo non ha raggiunto il proprio scopo e si ritrova nel tunnel di un regime di apartheid, che con gli anni e la crescita demografica palestinese – molto più rapida di quella ebraica – condurrà di fatto a una situazione in cui una minoranza manterrà piena egemonia su una maggioranza. L’unica soluzione resterà quella di uno stato unico democratico o la istituzionalizzazione di un regime di apartheid.
Aldo Sofia
La “soluzione dei due Stati”, recuperata dagli accordi di Oslo, è stata data per morta e sepolta anche in Israele. La road map di Oslo era nata su due presupposti: da una parte la necessità per Arafat di rientrare in gioco dopo la cacciata dalla Giordania e dal Libano, e dopo il suo sostegno a Saddam Hussein; dall’altra il fatto che comunque, in un rapporto di forze asimmetrico, Rabin pensava di poter tranquillizzare la sua opinione pubblica sul fatto che Israele, con il periodo transitorio di divisione della Cisgiordania in tre zone fra loro mal collegate e con difficoltà anche maggiori per i palestinesi di recarsi a Gerusalemme Est o a Gaza, avrebbe comunque mantenuto la vigilanza militare sui Territori.
Secondo: iniziato in queste condizioni il periodo transitorio (previsto su cinque anni) non venne ordinato da parte israeliana il congelamento di nuovi insediamenti ebraici, e ripreso gli attentati palestinesi sempre più a sfondo jihadista. Terzo: Oslo non affrontava nessuno dei temi principali, Gerusalemme, coloni, sostenibilità economica, ritorno o indennizzo ai rifugiati, frontiere, recupero anche delle parti di ulteriore territorio rispetto alla decisione dell’ONU che Israele aveva occupato dopo aver vinto gli eserciti arabi nel 48 e congelati da un’amnistia senza futuro. L’assassinio di Rabin nel novembre ’95 per mano di un giovane estremista ebreo fece precipitare tutto, né bastarono più le trattative tra Arafat e Ehud Barak né quelle tra Abu Mazen e Olmert per recuperare un piano di pace. Il paradosso, ora, è che mentre in Israele si fanno ipotesi su eventuali alternative su formule di soluzioni diverse (Stato binazionale, cantonalizzazione su tutta la Palestina storica, convivenza in un solo Stato di tipo federale), nella comunità internazionale si preme per il ritorno ai ‘due Stati’ come formula ancora possibile e salvifica.
Il fatto è che con questo governo israeliano si tratta di ipotesi già problematiche che diventano comunque impossibili. Le dimissioni di “Bibi” sono un pre-condizione indispensabile per procedere verso il futuro. Ma, consapevole di ciò e preoccupato anche per il suo futuro giudiziario, Netanyahu ha intenzione di prolungare la guerra ad Hamas il più a lungo possibile, riproponendosi come il garante dalla sicurezza. Un calcolo folle, ma che intanto lascia tutto nell’incertezza.
La risposta del mondo arabo ufficiale è stata relativamente blanda. Qual è la tua valutazione?
Chiara Cruciati
Il mondo arabo non è una realtà compatta e monolitica e va intesa in senso allargato, che contenga anche paesi non arabi come Iran e Turchia. Da sempre la questione palestinese è stata strumentalizzata dai vari regimi a fini interni e di influenze esterne. Da una parte il cosiddetto asse sciita della resistenza, che ha fatto della reazione politica e militare a Israele il filo conduttore del proprio ruolo regionale, ma che allo stesso tempo – lo vediamo oggi – è cauto per evitare un allargamento distruttivo e ingestibile del conflitto. Hezbollah in Libano e l’Iran si sono subito tirati fuori dall’azione di Hamas, intramezzando dichiarazioni infuocate con chiari richiami alla prudenza.
Dall’altra parte sta il fronte sunnita, egemonizzato dalle monarchie del Golfo, che fin dal 1948 non ha mai agito a favore del popolo palestinese, limitandosi alla difesa (anche questa a parole) di Gerusalemme e di al-Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam. Ai loro occhi la questione palestinese è regionale solo a fini di simbolismo religioso e può essere eclissata dagli interessi commerciali, diplomatici e militari che condividono con l’Occidente e di conseguenza con Israele. Nell’incontro di Riyadh nella prima metà di novembre la presa di posizione più forte è stata chiedere l’embargo militare contro Israele, ma nessuno si è assunto la responsabilità di rompere i rapporti con Tel Aviv o di utilizzare l’arma petrolifera per costringere gli Stati uniti e l’Europa a fare reali pressioni sul governo Netanyahu.
Aldo Sofia
Quella che ho anticipato. La comunità araba del Medio Oriente non si è mai spesa davvero per la causa palestinese, tranne un’iniziale maggiore sensibilità da parte dell’Irak di Saddam Hussein e della Siria di Assad padre. La questione palestinese è stata spesso strumentalizzata, e quando è diventata fattore di instabilità interna, come a Beirut o Amman, si è passati alla repressione dell’OLP (basta ricordare il “settembre nero” giordano o l’attacco maronita a Sabra e Chatila). Del resto, di come le élite arabe guardino ai ‘fratelli palestinesi’, è sufficiente il caso dell’Egitto: che alla frontiera sud collabora con le forze israeliane per l’attraversamento del confine, che ha concesso a Tel Aviv la possibilità di interventi militari preventivi nel Sinai, che ha dovuto sottostare alla volontà israeliana anche quando si è trattato di far passare dal confine di Rafah gli insufficienti aiuti umanitari dell’ultimo mese, e che guarda con grande preoccupazione alla possibilità che centinaia di migliaia di palestinesi sconfinino da Gaza sul suo territorio. L’Egitto del resto non è assolutamente interessato a ristabilire la sua autorità su Gaza, come fu fino alla guerra dei sei giorni. Nè mi sembra che le ipotesi di una Striscia di Gaza controllata da una forza congiunta di arabi moderati del Golfo abbiano concretezza. Almeno finora. E’ vero che ad alcune guerre nella regione sono seguiti degli accordi di pace. Ma per ora rimane inevasa la questione iniziale di questa crisi, così come la formulò Thomas Friedmann del New York Times, storico e grande esperto americano della regione: “Israele ci pensi bene ad entrare a Gaza, e lo faccia soltanto dopo aver capito come poi ne potrà uscire”. Ed è il mistero al centro di molte incognite.
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