di Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme
Si deve essere ciechi per non vedere che l’offensiva militare israeliana che ha devastato Gaza, ucciso oltre 25mila palestinesi in maggioranza donne e minori e ha sfollato gran parte della popolazione non sta raggiungendo gli obiettivi dichiarati da Israele dopo l’assalto lanciato il 7 ottobre da Hamas nel sud di Israele: la distruzione totale del movimento islamico, la sua rimozione dal potere a Gaza e la liberazione, attraverso la pressione militare, dei 130 ostaggi israeliani che restano Gaza.
Così come non si può non comprendere che il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha un forte interesse personale e ideologico nel continuare la guerra ed escludere una mediazione che porti al cessate il fuoco generale a Gaza e a uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi.
Tuttavia, la coperta del primo ministro israeliano già da qualche settimana si è fatta più corta. Nel gabinetto di guerra l’ala centrista – rappresentata dagli ex capi di stato maggiore Benny Gantz e Gadi Eisenkot, del partito dell’Unione nazionale – sembra aver compreso che la guerra contro Hamas non si può vincere, almeno non nei termini assoluti annunciati più di tre mesi fa. Mentre l’estrema destra – con in testa i ministri suprematisti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, stretti alleati di Netanyahu – spinge per continuare l’offensiva e chiede che a Gaza tornino i coloni ebrei evacuati nel 2005 con il piano di ridispiegamento attuato da Ariel Sharon. Rialzano nel frattempo la testa le pur esigue forze pacifiste israeliane (ebraiche e arabe) represse duramente per tre mesi dopo il 7 ottobre, che ora godono di qualche spazio di manovra in più e hanno unito le forze con coloro che chiedono una trattativa con Hamas per riportare a casa gli ostaggi. Infine, ci sono le pressioni, certo poco sincere e efficaci, di Usa ed Europa e delle petromonarchie arabe per dare una «prospettiva politica» al conflitto attraverso il rilancio della soluzione a Due Stati e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Un’idea questa che gran parte di Israele e Netanyahu respingono con forza assieme al ritorno al governo di Gaza dell’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen.
Il tempo non gioca a favore di Netanyahu e delle forze politiche che fanno riferimento a lui. In termini generali Israele - uno degli Stati più armati e militarmente più potenti al mondo grazie all’alleanza con gli Stati Uniti – ha preso rapidamente il sopravvento a Gaza. Ma le capacità belliche di Hamas, una forza guerrigliera ben organizzata al combattimento strada per strada, sono state limitate solo in parte. Secondo l’intelligence Usa, scriveva a gennaio il Wall Street Journal, Israele ha ucciso o messo fuori gioco solo il 20-30% dei circa 30mila combattenti di Hamas. Gli Stati Uniti ritengono che il movimento islamico abbia ancora munizioni sufficienti per combattere per diversi mesi. Hamas inoltre avrebbe adattato la sua tattica mordi e fuggi, ossia colpire e rientrare subito nei tunnel sotterranei che ha costruito nelle viscere di Gaza. Tattica che nei passati tre mesi si è rivelata letale in più di una occasione, in particolare lo scorso 22 gennaio quando un razzo sparato da combattenti di Hamas ha colpito un deposito di mine in due edifici uccidendo oltre 20 soldati israeliani e ferendone molti altri.
Nella dottrina militare statunitense, le forze convenzionali che subiscono una perdita del 25-30% dei loro uomini sono considerate inefficaci in combattimento. Tuttavia, Hamas è una forza irregolare che combatte in una posizione difensiva in un ambiente urbano che conosce alla perfezione. Quindi, è in grado di infliggere perdite significative all’esercito israeliano. Già a fine dicembre il generale della riserva Yitzhak Brik aveva scritto che sulla base delle informazioni che aveva ricevuto da soldati e da ufficiali israeliani a Gaza, era giunto alla conclusione che «il portavoce delle Forze armate israeliane e gli analisti militari negli studi televisivi presentano un quadro falso delle migliaia di persone di Hamas morte e dello scontro diretto tra le nostre forze e le loro». Il numero di membri di Hamas uccisi, aveva aggiunto, è molto inferiore: «La maggior parte della guerra non si combatte faccia a faccia, come sostengono il portavoce e gli analisti. E la maggior parte dei nostri morti e feriti sono stati colpiti dalle bombe e dai missili anticarro di Hamas… l’Esercito non ha soluzioni rapide per la lotta contro Hamas, la maggior parte dei suoi membri si nascondono nei tunnel».
Un quadro della situazione respinto dall’establishment politico-militare israeliana. L’Amministrazione Biden invece lo ritiene realistico tanto da abbassare le aspettative riguardo alla «rimozione» di Hamas da Gaza. Da parte sua il movimento islamico mira a resistere il più possibile. Non deve vincere, deve solo non perdere, spiegano commentatori ed esperti. Ad Hamas basta non essere sbaragliato del tutto, conservare il controllo anche solo parziale di Gaza e arrivare al cessate il fuoco definitivo con uno scambio di ostaggi/prigionieri politici per conquistare ulteriori consensi nella popolazione palestinese, a svantaggio dell’Anp di Abu Mazen sempre più debole, incapace di frenare le incursioni militari israeliane in Cisgiordania e prigioniera di disegni statunitensi ed europei che un po’ tutti ritengono irrealizzabili a causa dell’opposizione di Netanyahu.
Impietoso il giudizio dato da Amos Schochen nel suo editoriale sul quotidiano Haaretz: «Tutto questo accade perché Israele ignora ciò che ha fatto e continua a fare ai palestinesi nei Territori occupati: il brutale regime di apartheid che impone loro, il continuo peggioramento delle loro condizioni di vita, il calpestio del loro onore nazionale da parte di un paese che ha promulgato una legge fascista che marginalizza i cittadini israeliani arabi, drusi e non ebrei». Schochen ha condannato senza mezzi termini l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma, ha aggiunto, «è servito come campanello d’allarme per Israele: non esiste altra soluzione se non quella che l’ex primo ministro Yitzhak Rabin ha cercato di raggiungere, e che tutto il mondo a parte Israele sostiene: la soluzione a Due Stati, che istituisce uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza, sui confini del 1967».
Inutile illudersi. Netanyahu continuerà la guerra, a costo di tante altre vittime civili palestinesi a Gaza e persino della vita dei soldati israeliani. Ne ha bisogno per tentare la risalita nei sondaggi che lo vedono largamente perdente nei confronti del suo principale rivale Benny Gantz. Senza dimenticare i guai giudiziari che gravano sul primo ministro sotto processo (ora sospeso) per corruzione e abuso di potere. La campagna elettorale di fatto è già iniziata in Israele anche se le urne si apriranno tra mesi se non addirittura il prossimo anno, comunque dopo la guerra che durerà almeno per tutto il 2024. Netanyahu, per motivi ideologici, proseguirà anche il suo programma di negazione dei diritti palestinesi e di attuazione del programma della destra più estrema e del movimento dei coloni, a Gaza come in Cisgiordania dove negli ultimi mesi sono stati uccisi centinaia di palestinesi. Anche in Israele, in cui il sostegno alla guerra resta elevato, però ci si rende sempre più conto che andare avanti con il conflitto non servirà a molto. Non c’è alcuna possibilità di distruggere Hamas mentre Netanyahu sta facendo tutto ciò che è in suo potere per umiliare il presidente Abu Mazen che di fatto, in questo momento, è l’unico palestinese che potrebbe accettare di negoziare con Israele nonostante il massacro di Gaza. «Israele deve pagare un prezzo liberando tutti i prigionieri palestinesi e mettendo fine ai combattimenti per riportare a casa tutti gli ostaggi israeliani», ha scritto nel suo editoriale Amos Schocken. Allo stesso tempo, ha aggiunto, «deve accettare la posizione del presidente americano Joe Biden che chiede di agire rapidamente per creare uno Stato palestinese».
Difficile che ciò accada mentre i governi occidentali continuano a dare via libera alla continuazione delle operazioni militari israeliane e alle stragi a Gaza e in Cisgiordania e, più di tutto, a proporre la soluzione a Due Stati senza poi imporla a Israele che la rifiuta. Nel frattempo cresce nei Territori occupati lo scetticismo verso la parole dei leader occidentali a vantaggio delle voci più radicali.
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